sabato 20 ottobre 2018

Fine

Buongiorno, questo è l'ultimo post di "Librobreve": un ringraziamento a chi l'ha letto, alle persone che con contributi di diversa natura lo hanno alimentato, a chi ha scritto i libri di cui si è discorso dal 30 marzo 2011 a ieri. Un saluto, Alberto

The Fairest of the Seasons

venerdì 19 ottobre 2018

"Dopodomani non ci sarà. Sull'esperienza delle cose ultime" di Luca Rastello

“Non è mai finita”: Dopodomani non ci sarà. Sull'esperienza delle cose ultime è il libro postumo di Luca Rastello (pp. XIV-304, euro 16,90, con una prefazione di Monica Bardi). L’ha pubblicato Chiarelettere quest’estate, a tre anni dalla morte avvenuta il 6 luglio 2015. È un libro composito, per più aspetti problematico. La prima parte del titolo si riferisce al romanzo in formazione che Rastello non ha potuto chiudere. Fino al giorno prima della morte il titolo era “La luce” e dalla prefazione apprendiamo che la cartella che conteneva il tutto si chiama "Progetto grande ospedale". Il gesto estremo di cambiare titolo al file, poche ore prima di morire, raccontato lucidamente dalla moglie nella prefazione, ci dice probabilmente di una volontà di racchiuderlo e farlo leggere comunque, per quanto non finito, rannicchiato in una forma appena abbozzata. Per chi resta, è sempre difficile e delicata la gestione di simili situazioni, a maggior ragione se l’opera consta di un primo capitolo compiuto e poi di altri capitoli allo stato di abbozzo breve o addirittura molto breve, tanto che persino l'ordine in cui appaiono è stato arbitrariamente deciso dai curatori stessi. È uno dei tanti problemi dell'eredità di qualcosa e qualcuno e l'eredità letteraria non fa eccezione. Tra l’altro per Rastello non bisognerebbe mai concentrarsi sulle “cose ultime” del titolo, semmai è meglio far deviare quell'aggettivo in “Penultime”, come titola il pezzo che critica le cure alternative riproposto in coda al libro (è la prefazione al libro del 2009 Undici buone ragioni per una pausa pubblicato da Bollati Boringhieri). Sono le cose penultime quelle di cui si può scrivere e quelle di cui verosimilmente vale la pena scrivere. Si diceva libro composito, perché oltre al romanzo che si stava formando negli ultimi tempi della lunga malattia, questo libro è composto di molte parti: c'è la prefazione di Monica Bardi, prima dei frammenti dal romanzo potrete leggere lo scritto “Del morire”, mentre alla fine trovano posto i contenuti del blog del Malato Riottoso, il già citato “Penultime”, il saggio sull'Antigone sofoclea ("Ogni morto contemporaneo è Polinice" si legge ad un certo punto del romanzo-bozza) assieme a quello stupendo sugli infiniti, indugianti rivoli del Tristram Shandy di Laurence Sterne, anzi, per esteso, su Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (certi titoli, più di altri, non andrebbero mai abbreviati). Quello di Sterne è un "romanzo digressivo", della morte che insegue e delle opinioni-come-morte, della scrittura che influisce sul tempo e lo moltiplica, della dilatazione come resistenza al male, è romanzo della trovata di entrare nel romanzo, romanzo fondatore e distruttore del romanzo stesso (la nascita di Tristram, non prima di duecento pagine, è un "capolavoro di rifiuto" nelle parole di Carlo Levi). Quelli sulla tragedia sofoclea e su Sterne sono due scritti che inquadrano il polso del saggista. A chiusura del libro si trova la lunga lettera di commiato indirizzata alle figlie Elena e Olga ("Spero di avervi infilato nel cuore almeno il seme della curiosità").

Quasi metà del volume di Chiarelettere coincide con il romanzo incompiuto, il romanzo-bozza, che si presenta in un'ambientazione ospedaliera, nell'istituzione semi-totale, per riprendere con lieve variazione la categoria di Erving Goffman usata per carceri e ospedali psichiatrici in Asylums (libro del catalogo Einaudi, tradotto in italiano da Franca Basaglia). L'aria è tutta quella di un materiale preliminare. La morte ha interrotto questo testo in divenire e la morte - ha scritto Daniele Giglioli per questo libro - "interrompe il tempo del singolo, certo; ma anche lo moltiplica, lo rende tangibile, prezioso, pluridimensionale" (un po' quello che fa la scrittura nel libro di Laurence Sterne). Il passo è quello che potremmo chiamare del romanzo-saggio, novel-essay, ricordando la formula di un recente libro di Stefano Ercolino uscito in inglese prima e poi per Bompiani, che però afferra una cornice temporale di molto anteriore ai nostri giorni. I nuclei del discorso di Rastello interrompono continuamente il flusso di una possibile vicenda e nei brevi capitoli che seguono il primo compiuto capitolo Rastello adagia le proprie incursioni squisitamente saggistiche. Una delle frasi delle figlie che Rastello si porta dentro è appunto "Non è mai finita" (viene quasi da completarla, come nella canzone di Gaber E tu mi vieni a dire). Chi cercherà in queste pagine un romanzo non lo troverà, eppure questo non deve né togliere né aggiungere un grammo di interesse per la pubblicazione. Questo è quanto Luca Rastello è riuscito a portare a termine, n
on deve preoccupare lo stato preparatorio di abbozzo o frammento, perché una scrittura incompleta può rivelarsi più importante e duratura di tanti romanzi stucchevolmente rifiniti e piallati. È questo il nostro caso.

Per avanzare un esempio, tra i tanti nuclei sviluppati, si potrebbe citare la scottante e scomoda riflessione di Rastello sull'esercito dei volontari e sulle diversificate propaggini del volontariato, qui intraviste dall'angolatura dell'internato in ospedale, tanto che viene da chiedersi se questo poteva diventare un altro suo libro in grado di confrontarsi con questa attività gratuita (un primato italiano, tra l'altro? Se sì, è un bel primato? Non lo so, lancio la domanda. Mutatis mutandis non assomiglia al primato dello scoutismo che Marc Bloch lamentava come segno evidente del fallimento di un'educazione nazionale nel suo La strana disfatta scritto di getto nel 1940 per la Francia spappolata?). Ho scritto "un altro suo libro" perché avrebbe potuto fare coppia con I buoni del 2014, del quale si è molto discusso e dove questo attacco al volontariato era iniziato, anche se lì il discorso era diverso e si parlava di una ONG e di professionisti del volontariato, mentre qui Rastello se la prende con un clown che gonfia palloncini oppure con i professionisti della finta empatia e condivisione. Si arriva al paradosso, illuminante come certi paradossi e esagerazioni, per cui l'ospedale è quel posto dove il malato va per curare l'ego dei volontari. Ma ci sono anche il cosiddetto fine-vita e il testamento biologico tra le fermate di questo itinerario di scrittura. E si registra ancora nella prosa di Luca Rastello un'aderenza ragguardevole tra pensiero e lingua che è diventata rara nel romanzificio nostrano, tendente al raccogliticcio di storie spesso positive, edificanti, rassicuranti, campionari di conciliazioni anodine, preferibilmente già impacchettate per un prevedibile, scontato successo social(e) (ma succede anche nella poesia o nella saggistica, ormai, mettiamoci il cuore in pace). Luca Rastello tempra la scrittura facendo reagire il residuo dell'esperienza saggistica e giornalistica sviluppata in situazioni infernali con un duro apprendistato filosofico. Ecco un passaggio:

Avvicinarsi a una persona è come cadere in un abisso, è puro terrore, qualcosa che ai professionisti della condivisione è totalmente negato: non la conoscono, non sono interessati, hanno già risolto in parole confortevoli il problema di avere a che fare con altri umani. Avvicinare una diversità dolente impone di tener conto non solo del dolore, ma anche della diversità, ciò che il volontariato invece annulla e impedisce. Chiamano partecipazione, empatia, condivisione un surrogato che ha come solo effetto quello di anestetizzare il senso di vertigine che nasce dalla mancanza di vera partecipazione, vera empatia, vera condivisione. Si drogano. E la droga la pagano i malati.
Il bon ton letterario, richiesto anche da certi editori un tempo considerati di punta e di ricerca, è evidentemente e per fortuna lontano da qui. Quando scrive di libri Rastello è ugualmente fendente e preciso, ci rammenta il paradigma imperante della vittima magari applicato all'autore di turno, ci parla di un terreno nel quale Nabokov perde rovinosamente "mentre Paulo Coelho si impone con la leggerezza di una catastrofe universale". Non esiste letteratura se comanda solo quel bon ton che qualsiasi industria impone e a tratti è come se Rastello, senza illividimenti o livori, ci ricordasse questo assunto, tanto basilare quanto dimenticato nel contesto dopato e spacciato dei like. E il punto non è allora scrivere il "grande romanzo di qualcosa", ma capire che nell'eterna confusione di male e bene ci sarà sempre una nuova sconquassante domanda da porci. Succede in queste pagine, può succedere leggendo Piove all'insù, I buoni che all'epoca entrò in un tunnel di polemica feroce o La guerra in casa. Sempre Giglioli ricordava, scrivendo di Piove all'insù - per il quale fra l'altro trovava restrittiva l'etichetta di "romanzo degli anni Settanta" - che "i bei libri si coniugano sempre al futuro e ci chiedono di interrogarci, più che su cosa siamo stati, su cosa potremmo ancora essere". Anche Dopodomani non ci sarà si coniuga al futuro.


P.S. Chi vuole leggere la lettera alle figlie trova un estratto quiqui invece c'è lo scritto su Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne, nel quale Rastello si sofferma anche su Le vicende del bravo soldato Švejk di Jaroslav Hašek.

giovedì 18 ottobre 2018

"Corrado Cagli. La pittura, l'esilio, l'America (1938-1947)". Un'intervista con Raffaele Bedarida

Librobreve intervista #84

Pubblico di seguito un'intervista a Raffaele Bedarida, professore di Storia dell'arte all'università Cooper Union di New York, e autore del saggio Corrado Cagli. La pittura, l'esilio, l'America (1938-1947) edito quest'anno da Donzelli (euro 32, pp. XXVI-294, con 16 illustrazioni a colori, prefazione di Enrico Crispolti e presentazione di Paolo Marzotto). Ringrazio l'intervistato unitamente a Francesca Pieri della casa editrice Donzelli.

LB: Anche se il libro si focalizza su un decennio significativo della prima parte del Novecento (1938-1947), partirei dal presente: qual è il punto che si potrebbe fare sul presente di Corrado Cagli (1910-1976), sulla ricezione della sua opera, sul suo lascito artistico e intellettuale?
R: Paradossalmente Cagli è ovunque ma è invisibile. È imprescindibile per la conoscenza dell’arte italiana del ventesimo secolo, ma non rientra nelle narrative lineari o già digerite della storia di quei decenni. Naturalmente ci sono state mostre e pubblicazioni importanti su Cagli grazie al lavoro di studiosi come Enrico Crispolti e Fabio Benzi. Ma nelle narrazioni complessive del periodo, Cagli rimane spesso un punto cieco che è significativo proprio nella sua invisibilità. Per esempio, uno dei suoi disegni di Buchenwald chiudeva Post Zang Tumb Tuum, la grande mostra curata da Celant alla Fondazione Prada nella primavera 2018. Ma nel percorso della mostra, quel disegno spariva: non solo non faceva parte delle spettacolari ricostruzioni di mostre messe in scena da Celant, ma compariva nella sala finale dominata da una grande tavola centrale, dove i visitatori potevano sfogliare centinaia di libri e cataloghi sul fascismo. Dunque quando Cagli compariva il percorso narrativo della mostra era già concluso e il pubblico dava le spalle a quel disegno così drammatico, ma messo in sordina.
Nella mia introduzione, ho cercato di delineare come le problematiche metodologiche che rendono questo artista difficile da collocare, siano proprio le problematiche con cui dobbiamo fare i conti. Spero il mio libro contribuisca a questo, insieme al lavoro di altri autori come Michele Dantini o Davide Colombo che stanno facendo molto per riscrivere la storia del Novecento in Italia dando, tra l’altro, una nuova centralità a Cagli.
Anche uscendo dal contesto italiano le cose si stanno smuovendo. Perfino il MoMA sta organizzando una grande mostra su Lincoln Kirstein, che sarà un po’ una controstoria del museo. Infatti Kirstein è una figura fondante nella storia del MoMA, ma la sua idea di modernità è alternativa se non addirittura incompatibile con quella di Alfred Barr che poi di fatto è prevalsa. In quella mostra Cagli avrà un ruolo abbastanza importante. Venendo dal MoMA, spero si tratti di una scossa profonda alle attuali narrazioni dell’arte moderna.

LB: E prima di partire per gli Stati Uniti, a 28 anni, che cosa ha già fatto Corrado Cagli?
RB: La sua carriera negli anni Trenta ha del prodigioso. È una delle voci più influenti del muralismo a partire dalla Triennale milanese del 1933 e la pubblicazione del suo manifesto “Muri ai pittori” dello stesso anno (all’età di 23 anni). Nel 1935 è uno dei fondatori e di fatto dirige la galleria e cenacolo letterario della Cometa con centro a Roma, una succursale a New York e un salotto letterario a Parigi. Partecipa con posizioni di primissimo piano alle Quadriennali romane, Biennali di Venezia fino al 1938. Inizialmente lo invitano addirittura all’edizione del 1939 ma poi viene escluso in quanto “di razza ebraica”. Ricopre posizioni importanti anche in mostre all’estero, come il padiglione italiano per l’esposizione universale del 1937 a Parigi – quella di Guernica per intenderci – e alla mostra Anthology of Contemporary Italian Painting a New York nel 1938. In altre parole, pochi mesi prima dell’esilio, Cagli è una figura di spicco dell’arte italiana e rappresenta il Paese in rassegne internazionali prestigiose.
Da molti viene visto come esponente di spicco di una via italiana alla modernità, alternativa al futurismo da una parte ed a Novecento dall’altra. A sostenerlo sono figure influenti nella politica culturale italiana del periodo, da Bontempelli a Bottai, ma anche all’estero, dal critico Waldemar George in Francia al direttore del Carnegie International, Homer Sain-Gaudens negli USA.
Allo stesso tempo però Cagli diventa il bersaglio principale della fazione più reazionaria della critica d’arte fascista. Autori come Farinacci o Pensabene che vogliono importare anche in Italia la campagna nazista contro la cosiddetta “arte degenerata” vedono in Cagli il male assoluto: oltre al tipo di arte che fa e che promuove (troppo espressiva, visionaria e destabilizzante per i loro gusti), Cagli è ebreo, gay e attivo internazionalmente. Insomma, è il bersaglio ideale per portare avanti una campagna contro l’arte moderna, descritta come giudaica, degenere e bolscevica.

Alfred Barr
LB: La ricerca confluita nel volume di Donzelli copre un decennio che sostanzialmente va dalle leggi razziali del 1938, di cui ricordiamo l'ottantennale proprio in questi giorni, al controverso rientro di Cagli in Italia, nel clima avvelenato di un dopoguerra. Cosa succede di rilevante in questi dieci anni d'esilio e perché diventano essenziali per illuminare l'intero percorso di questo artista? In buona sostanza, chiedo di tratteggiare, se possibile, la specificità del contributo di questa accurata ricerca.
RB: Il periodo dell’esilio di Cagli era fino ad oggi poco conosciuto per due motivi principali: in primo luogo i molti spostamenti e la frammentarietà della sua vicenda personale rendono logisticamente difficile il reperimento di documenti sparpagliati per archivi tra Italia e Stati Uniti; allo stesso tempo la condizione precaria e lo stile di vita nomade del periodo preso in considerazione hanno interrotto quel flusso notevole di produzione artistica che aveva caratterizzato i primi anni rendendo il corpus di opere di quel decennio numericamente inferiore e in certi casi anche qualitativamente meno felici delle opere esuberanti del primo Cagli.
Grazie ad una serie di borse di studio da parte dell’Università di Siena e della City University of New York, ho avuto l’opportunità preziosa di studiare documenti sparpagliati ovunque e dunque ricostruire una vicenda drammatica e avvincente. Mi sono anche reso conto che proprio la frammentazione e la schizofrenia stilistica del suo lavoro durante l’esilio sono ciò che rende questo lavoro significativo a livello personale e non solo. Infatti l’eclettismo di Cagli, che lo rende odioso ai cultori della cosiddetta coerenza, è una scelta deliberata ed il prodotto di una scissione identitaria maturata proprio durante l’esilio. Insomma credo che il periodo che ho studiato sia una fase di incubazione fondamentale di una strategia intellettuale postmoderna.
Ho cercato anche di portare avanti una riflessione metodologica sulla monografia d’artista come genere letterario. Fondata tradizionalmente su un modello vasariano di tipo “arte e vita”, la monografia d’artista spesso fonde queste due componenti con l’obiettivo di raggiungere un’ideale unità e completezza dell’artista come soggetto. Lavorando su una produzione frammentaria e su una vicenda fatta di interruzioni, il mio studio cerca di ripensare la monografia d’artista come narrazione che scava lacune e incertezze più che unire i punti noti.
La versione lineare sarebbe come segue. Attaccato, censurato ed infine estromesso dalla vita culturale italiana, Cagli lascia l’Italia a seguito delle leggi razziali e trascorre un primo periodo in Svizzera e poi un anno a Parigi. Riesce infine ad ottenere il visto per gli Stati Uniti grazie al supporto, tra gli altri, di Alfred Barr, allora direttore del MoMA. Una volta in America si trova nell’ambiente dei surrealisti in esilio. Espone alla galleria surrealista di Julien Levy, ma poco dopo si arruola nell’esercito americano. Agli anni di addestramento sulla costa ovest (tra California, Oregon e stato di Washington) segue un breve periodo a Londra, lo sbarco in Normandia e la campagna militare in Francia, Belgio e Germania con la prima armata dell’esercito USA, che culmina nell’aprile 1945 con la liberazione di alcuni campi di concentramento tedeschi – il più importante è Buchenwald. Grazie ad un accordo con l’esercito, Cagli può continuare a lavorare come artista e ad esporre per tutto il periodo. Infatti realizza almeno due cicli di pitture murali per accampamenti militari in California e documenta la propria esperienza dell’addestramento e della guerra in una serie di disegni che vengono esposti e pubblicati in tempo reale sia in Europa che in America. Per esempio una mostra di suoi disegni inaugura a Londra proprio il giorno dello sbarco in Normandia. Cagli ovviamente non vede la mostra perché impegnato nelle manovre militari. Alcuni suoi disegni sono anche distribuiti in Italia grazie ad una rivista in lingua italiana, stampata a Londra, intitolata "Il Mese". Dopo la guerra rientra a New York dove riprende l’attività artistica a pieno ritmo, incoraggiato da importanti riconoscimenti, come il Guggenheim Fellowship del 1946 e l’emergere di un nuovo interesse da parte del pubblico americano per l’arte italiana. Inoltre è impegnato nell’ambito del balletto, collaborando con Lincoln Kirstein e George Balanchine. Decide però di rientrare in Italia, dove viene aspramente contestato. L’ostilità con cui viene accolto - le accuse di essere stato fascista, e di essere attualmente un agente del mercantilismo americano lasciano trapelare toni antisemiti e omofobi tutt’altro che velati – non è diversa da quella riservata ai professori universitari ebrei che nel dopoguerra non sono reintegrati. Ecco, questo potrebbe essere un riassunto delle vicende narrate nel libro come se si trattasse di una linea chiara.
Ma quello che ho cercato di fare, invece, è di scavare nelle pause. Come quando Cagli disegna figure bibliche e santi che vagano con aria stralunata per i paesaggi dell’Oregon come se si chiedessero "cosa ci sto a fare qui?". Manca una direzione, manca un pubblico e manca un autore.

Cagli a Camp Callan, California, 1942
LB: Il libro appartiene a una collana di Donzelli intitolata "Italiani dall'esilio". Immagino sia possibile cercare un legante tra i libri di questa collana e le esperienze di esilio nel piano editoriale del direttore della collana stessa, Renato Camurri. La domanda allora diventa questa: l'esilio di Cagli diventa emblematico e paradigmatico di qualcosa? In che cosa invece è un caso unico?
RB: L’arrivo degli artisti e intellettuali europei - soprattutto francesi e tedeschi – negli Stati Uniti a ridosso della Seconda guerra mondiale è un fatto ben noto che è ormai entrato a far parte del canone storico artistico. Invece la vicenda umana e intellettuale dei molti italiani – ebrei, antifascisti o altro – che hanno raggiunto l’America alla vigilia del conflitto deve essere ancora esplorato. È anche in divenire una valutazione del ruolo svolto collettivamente dagli italiani in esilio come ponti culturali o traduttori culturali tra Italia e Stati Uniti a cavallo della guerra. Dunque la collana diretta da Camurri ha il grande merito di affrontare un fenomeno storico definendone le caratteristiche comuni così come le specificità.
Se l’ambiguità e la contraddittorietà delle politiche culturali del regime fascista hanno reso difficile la ricezione internazionale dell’arte moderna italiana, la migrazione in America di un artista come Cagli manda in cortocircuito il sistema di lettura definito da istituzioni come il MoMA, che hanno costruito intorno alla fuga degli artisti dalle dittature europee un vero e proprio mito di origine. Quindi lo studio della storia degli italiani in esilio e, nello specifico, della vicenda di Cagli è una grande opportunità di revisione e ampliamento di un mito fondante.

Cagli e Olson, Y & X copertina e cello
LB: Cagli e i letterati, da Olson a Bontempelli. Al di là del lieve grado di parentela che lega Cagli e Bontempelli, che rapporto è? Chi prende e chi dà? Allargando la visuale in una panoramica, quali situazioni e legami si creano tra Cagli e gli scrittori?
RB: Una caratteristica fondamentale di Cagli è certamente lo sforzo continuo a contaminare e collaborare al di fuori dei confini di una singola disciplina o linguaggio: non solo con letterati ma anche con musicisti, architetti, matematici e molto altro. Bontempelli ha certamente un ruolo di mentore per il giovane Cagli. È suo zio acquisito e, anche se già dalla fine degli anni Venti si è allontanato da Amelia Della Pergola, zia materna di Cagli, Bontempelli mantiene il rapporto e incoraggia il giovane pittore, sostenendone le prime pubblicazioni e mostre nel corso degli anni Trenta. Certamente tematiche fondamentali nel lavoro di Cagli, come il primordio, sono ispirate a Bontempelli. È significativo che anche nel 1947, quando espone per la prima volta in Italia dopo la guerra, chieda a Bontempelli di introdurlo in catalogo nonostante il suo lavoro attuale sia molto lontano dal tipo di pittura che Bontempelli aveva sostenuto e incoraggiato negli anni Trenta.
Nel caso di Olson è quasi il contrario. Nonostante Cagli e lo scrittore americano siano coetanei, al loro incontro nel 1940 la disparità tra loro è evidente. Mentre Cagli ha una solida carriera d’artista alle spalle, come abbiamo visto, Olson sta ancora lavorando alla sua tesi ed ha pubblicato ben poco. Cagli lo incoraggia a portare avanti la sua vocazione di poeta e a mettere insieme il suo primo libro di poesie, Y & X, che è un dialogo tra i versi di Olson e i disegni di Cagli.

LB: Si parla da anni di "sistema dell'arte", un sistema globale ormai. Il suo libro consente di intravedere un frangente in cui questa globalizzazione del sistema non è ancora del tutto compiuta e si scorge una specificità tra i vari sistemi dell'arte nazionali (persino intranazionali, con le differenze che potremmo osservare tra città come Milano e Roma, ad esempio). Cosa aggiunge il caso di Corrado Cagli alle riflessioni che solitamente si fanno sul sistema dell'arte contemporanea?
RB: Non è certo nuova la tensione tra prospettive globali, che rischiano di diluire o di rimanere in superficie e un’attenzione alle specificità locali, che rischiano di risultare irrilevanti o quanto meno provinciali. Studiare un artista come Cagli, che nei tempi di Facebook verrebbe definito un networker, è un’alternativa a entrambi i sistemi. Non solo Cagli si adopera, sin dai primi anni, a mettere in dialogo e ad avviare collaborazioni tra luoghi e ambienti culturali distanti (prima tra Roma e Milano, poi con Parigi e infine con New York), ma fa anche di tutto per facilitare il confronto tra parametri o valori incongruenti tra loro. Anche per questo si è trovato spesso nel mezzo di polemiche e di contestazioni. Come quando, nel 1949, il MoMA presenta l’arte italiana del dopoguerra come un “rinascimento” dopo la fine del fascismo e Cagli scrive polemicamente che in realtà non è mai venuta meno la continuità tra il prima e il dopo.

LB: Mi piacerebbe chiudere questa intervista con un'opera scelta tra quelle del periodo studiato nel libro e sulle motivazioni di questa scelta. Grazie.
RB: Vorrei concludere con due opere invece di una perché, al solito, rappresentano meglio la resistenza strategica da parte di Cagli a ogni forma di sintesi risolutiva. Si tratta di due opere che fa all’indomani della guerra e nel momento in cui decide di rientrare in Italia. Uno è intitolato “Il ritorno di Ulisse” e rappresenta un atelier immaginario con immaginarie opere dipinte. Varie linee e diversi sistemi prospettici, tanti artisti o personaggi cercano di collegare il tutto, ma qualsiasi sforzo di trovare una coerenza spaziale o una logica rappresentativa risulta frustrante. Allo stesso tempo Cagli disegna “Polifemo”, il cui corpo è definito con precisione e solidità manierista ma la cui testa sembra esplodere. In quello stesso momento Cagli torna in Italia con quadri astratti sulla quarta dimensione, con disegni dettagliatissimi degli orrori di Buchenwald, ma anche con un passato fascista che riemerge in superficie e che Cagli non fa nulla per coprire (il suo affresco per l’Opera Nazionale Balilla a Roma era stato censurato e ora viene riportato alla luce e dalle macerie del suo studio bombardato riemergono i suoi lavori degli anni Trenta). Insomma ritorna a Roma come Ulisse e come Polifemo allo stesso tempo. È un outsider in quanto ebreo e in quanto gay. E il fatto che abbia combattuto la guerra con l’esercito americano non gli viene perdonato. Insomma non c’è da stupirsi che la sua prima mostra del dopoguerra finisca a cazzotti.


Il ritorno di Ulisse, 1946, disegno a olio su carta intelata, cm 47 × 60

Polifemo, 1946, inchiostro su carta, cm 32 × 23

lunedì 15 ottobre 2018

L'ottavo numero della rivista "Pièra"

Riviste #10




È uscito Sabato 13 ottobre in distribuzione con il "Corriere del Veneto/Corriere della Sera" l'ottavo numero della rivista "Pièra", di cui qui riporto la copertina. Continuerà a rimanere in vendita nelle edicole di Treviso e provincia nelle prossime settimane. 

La rivista è pensata, scritta e realizzata dagli architetti dell'Ordine Professionale della Provincia di Treviso. Il nuovo fascicolo ricade in un progetto editoriale articolato su più numeri e dedicato al tema delle generazioni. Il percorso s'intende come un viaggio fra le generazioni degli architetti che dagli anni Sessanta ad oggi hanno intrecciato le loro vite professionali con lo sviluppo tecnologico, economico, politico della società civile. Un percorso scandito dagli ultimi decenni e che arriva a I giorni nostri, titolo del numero ora in distribuzione (qui si rinvia alle due pagine iniziali, con editoriale e indice). Molto belle, tra l'altro, sono secondo me le foto di Mauro Romanzi.

Ho ricevuto un invito a contribuire liberamente con uno scritto. Di qui La fionda. Dialogo d'ufficio a quattro voci, in sostanza una breve pièce, o meglio ancora uno sketch.

venerdì 12 ottobre 2018

Su Vitaliano Brancati. Un'intervista con Valeria Giannetti

Librobreve intervista #83


È uscito quest'anno per Nino Aragno Editore il saggio Vitaliano Brancati di Valeria Giannetti, docente di lingua e letteratura italiana all'Université Sorbonne Nouvelle - Paris 3. Nell'intervista che segue, l'autrice ripercorre alcuni aspetti rilevanti dell'opera brancatiana e alcune dinamiche relative alla ricezione di questa. Ringrazio Valeria Giannetti per le risposte, dense e scorrevoli ad un tempo, che davvero possono invitare alla lettura o alla rilettura dei libri dello scrittore di Pachino.


Vitaliano Brancati
(Pachino, 1907 – Torino, 1954)
LB: Partirei da un'apparente dimenticanza (dico apparente perché questi su e giù dell'interesse per un autore e la sua opera ormai sono noti e non devono più di tanto sorprendere). Le chiedo comunque perché secondo lei non sono anni "su" per Brancati e la sua presenza nelle grandi linee di forza del dibattito culturale. C'è da dire che, a un livello di pubblicazioni, Mondadori, proprio da quest'anno, sta riproponendo nei più fruibili Oscar diversi suoi titoli e che il suo saggio, assieme a pochi altri, fa eccezione. L'impressione è comunque quella di una strana mancanza di Brancati nel dibattito, oserei dire quasi una rimozione. Ma forse esagero e lei saprà correggere il tiro...
R: Brancati è stato nel suo tempo un intellettuale spregiudicatamente “inorganico”, come ha sottolineato Giulio Ferroni; critico nei confronti degli “ismi” contemporanei, vale a dire delle mode culturali e delle codificazioni ideologiche del secondo dopoguerra – profondismo, freudismo, ibsenismo, intimismo, realismo sociale, materialismo – subentrate, con effetti anch’essi negativi sulla società e la cultura italiana, ai precedenti “ismi” del regime fascista – anticomunismo, antiparlamentarismo, anticonvenzionalismo, nazionalismo, attivismo, “niccismo”. Droghe gratissime ai cervelli stanchi, le definiva Brancati. Questo spiega in parte la tiepida accoglienza che gli fu riservata dai critici, i quali lo considerarono come un moralista, o lo relegarono nella categoria degli scrittori rappresentanti di tematiche regionali, per i suoi romanzi e racconti ambientati in Sicilia. Un’interpretazione riduttiva, se si pensa che Brancati aveva affrontato anche temi scabrosi per l’epoca, come l’omosessualità, incorrendo peraltro nella censura, e che partecipava attivamente al dibattito culturale, attraverso i suoi numerosi interventi giornalistici. Anche il suo rifiuto della letteratura di ispirazione ‘metafisica’, denigrato da Alberto Savinio per esempio, aveva in realtà ragioni poetiche profonde, rimaste incomprese, che ho voluto restituire, insieme ad altri aspetti della sua opera. C’è da dire che non vi era ancora stato Sciascia, in quegli anni, a illuminare il senso profondo della “sicilitudine”, tanto discusso in seguito.
Oggi poi può parere difficile riuscire ad avvicinare i lettori a un’opera percorsa da una grande tensione morale e civile. I nostri sono anni in cui anche gli spazi del discorso culturale e sociale sono spesso colonizzati da dichiarazioni malintenzionate, destinate a influenzare masse disorientate; anni in cui il pensiero si trova a doversi dispiegare nelle forme rapide e superficiali della comunicazione odierna che, apparentemente libere, dirette, nascondono invece nuove e complesse insidie, nuove distorsioni e condizionamenti.
Proprio per questo però, mi pare importante riscoprire e rileggere uno scrittore come Brancati. Uno scrittore che con coraggio e dignità, in anni difficili, aveva scelto la strada della libertà e dell’autonomia intellettuale, della lucidità critica, dell’impegno e della militanza intesi come conquiste della coscienza civile, e non come acquiescenza a logiche partitocratiche o mediatiche. I suoi scritti possono ancora parlarci oggi, e indurci a pensare.

LB: L'apparente dimenticanza - qualora sia confermata - cozza con il lascito di uno scrittore la cui opera è probabilmente una chiave d'accesso privilegiata al carattere "italiano" largamente inteso e a decenni fondamentali della storia del nostro paese, il Fascismo in primis. Secondo lei, le due cose potrebbero in realtà essere più legate di quanto crediamo?
R: La nostra, ci è chiaro, non è l’epoca dell’autocritica costruttiva, della riflessione, del progetto. È piuttosto l’epoca delle certezze ostentate, della hỳbris, dell’altercazione sguaiata, del frastuono mediatico, di una demagogia enfatica che, più che farsi espressione della volontà del popolo, rivela i condizionamenti su di esso esercitati. Il dibattito politico attuale ne è un esempio. Gli intellettuali del Risorgimento italiano avevano mostrato che il popolo, se la parte “illuminata” di esso non lo aiuta a ritrovare coscienza di sé, della propria storia, della propria cultura, diventa una massa amorfa, dominata e sedata da élites che perseguono i propri interessi economici e politici, o degenera invece in massa riottosa, pronta ad obbedire a nuovi tribuni.
Brancati scriveva che le aberrazioni del fascismo non erano scomparse con la fine del regime, che piuttosto si erano incarnate in nuove forme ideologiche, perché insite nella natura umana, che è inclinata verso gli istinti bruti. Ma la cultura, l’arte, la letteratura, il lavoro intellettuale, possono costantemente sublimare la natura umana. La nostra visione, oggi, è meno pessimista di quella di Brancati, perché la società, rispetto agli anni del dopoguerra, ha conosciuto globalmente conquiste importanti, insieme naturalmente a nuove sfide, nuovi pericoli, e insidiosi arretramenti. Anche oggi, allora, la letteratura può e deve riaprire gli spazi del pensiero perduti, minacciati, o dimenticati. Il dovere di memoria è stato la forza dei nostri grandi scrittori; a loro dobbiamo almeno di ricordare quello che ci hanno insegnato.

LB: Poniamoci nei panni di un lettore digiuno di Brancati. Si sentirebbe di consigliare un ordine di avvicinamento alle sue opere? Da quale consiglierebbe di iniziare? Che cosa consiglierebbe di lasciare alla fine?
R: Comincerei senz’altro dai racconti, e poi dai romanzi degli anni Trenta, Sogno di un valzer e Anni perduti, nei quali la scrittura si fa dialettica del reale e dell’immaginario, tra illusione della realtà e realtà dell’illusione. Sono opere che nascono da quel “sentimento comico” che Brancati identificava come la chiave della sua apprensione e scrittura del mondo, in un’accezione tuttavia complessa, che difatti non esclude affatto un’accentuazione drammatica, e persino tragica. Gli antieroi comici di Brancati nascono come figure di un desiderio che produce illusioni, e che si consuma comicamente nel rapporto impossibile all’azione. La forza del desiderio rende la loro esperienza della realtà intermittente, o radicalmente assente, o potentemente alterata. Essi vivono del “non essere qualcuno”; e in ciò rinviano all’instabilità ontologica dell’essere, alla sua labilità, incompiutezza, discontinuità. Sciascia, per il quale Brancati era stato un riferimento importante, considerava la Sicilia come metafora del mondo. Ma già per Brancati, come per altri grandi scrittori siciliani, l’habitus antropologico dei propri personaggi è specchio di una condizione esistenziale. Il “gallismo” degli uomini del sud Italia, neologismo da lui creato, ha, come il dongiovannismo del Don Giovanni in Sicilia, un senso ontologico che eccede quello socio-culturale. Il desiderio nei romanzi di Brancati è il solo indizio reale della ‘persona’, ed esso invia dei segnali inquietanti, di dissoluzione e fuga. È il tema dei due romanzi successivi, Il bell’Antonio e Paolo il caldo, in cui alcune interrogazioni aperte dalle teorie dell’inconscio sono elaborate con esiti narrativi di una complessità molto più intensa rispetto ad altri romanzi italiani che se ne ispirano. In questa prospettiva, Paolo il caldo andrebbe letto dopo gli altri romanzi che ho citato. È un approdo ulteriore della riflessione di Brancati sulla condizione umana – e la morte prematura dello scrittore ha fatto sì che esso restasse l’ultimo. Il discorso del corpo, attraverso il quale si esprimono i personaggi di Brancati, è illustrazione del conflitto insolubile tra la materia organica e le produzioni dello spirito, tra il meccanicismo delle funzioni fisiologiche e l’astrazione intimista del pensiero. Nell’ultimo romanzo però tra l’istanza riflessiva della coscienza e l’opacità degli istinti, delle pulsioni, non vi è più che un’osmosi incessante e automatica. La coscienza si arrende alle incursioni dei sensi, imprigionata nelle cavità oscure della carne; le facoltà razionali sprofondano in esse, e si confondono con la materia organica, che le riassorbe trionfante. Il corpo allora diviene il mondo del soggetto; un mondo non più abitato da cose e persone, ma da pulsioni e “oscuri fermenti”.
Il percorso iniziatico si concluderebbe però con le prose dei Piaceri, per il loro felice equilibrio compositivo, per la loro “precisione epigrammatica”. Brancati le aveva definite come «un misto di fatti e moralità, quasi dei racconti avventurosi», con allusione alla loro natura di avventure dell’animo, secondo un modello leopardiano, e alla tensione gnoseologica che in esse si esprime. In esse l’esercizio dell’ironia critica perviene ad esorcizzare le alterazioni della realtà, a riannodare i frammenti sparsi dell’esperienza sensibile, e a ristabilire la comunicazione tra le fantasmagorie dell’immaginazione e il lavoro critico della ragione. Non è una raccolta che conclude, tutt’altro, e per questo la suggerirei alla fine del percorso.

LB: Lei insegna in Francia. Ha avuto modo di registrare diverse attenzioni nei confronti dell'opera di Brancati fuori dai confini nazionali, in Francia ma anche in altri paesi?
R: In Francia Brancati è tradotto, ma non si può certo dire che sia un autore molto conosciuto. La questione dell’italianismo all’estero è complessa; certamente legata alle politiche istituzionali in questo ambito, più o meno felici.

LB: Vorrei aprire due parentesi che esulano dal romanziere: il continente della saggistica brancatiana e la sua presenza nel cinema. Quali sono secondo lei le maggiori eredità in questi due ambiti?
R: Gli scritti saggistici di Brancati si iscrivono nella grande tradizione di letteratura morale e civile italiana. Il pensiero ‘civile’ di Leopardi – ma l’influenza leopardiana in generale è molto presente nelle opere di Brancati – ne è un riferimento teorico essenziale. Esso orienta il liberalismo e il ‘moralismo’ dello scrittore, la sua concezione dell’arte, l’interesse che egli porta alla lingua italiana, e l’interrogazione sulla condizione umana, nella sua dimensione intima e privata e nei suoi rapporti con la Storia. Di Leopardi Brancati aveva curato un’antologia, con il titolo Società, lingua e letteratura d’Italia (1816-1832), che si apre con il Discorso sullo stato presente dei costumi degl’Italiani, nel quale, ricorda Brancati, Leopardi si interroga sulla società e sulla natura delle istituzioni civili. Nel testo leopardiano Brancati identifica i presupposti di una critica del nazionalismo e dell’attivismo, alla quale egli si ispira. Dal Leopardi ‘civile’ egli desume anche le premesse per una riflessione sul rapporto degli individui con la società, e il fondamento teorico della critica del mito del progresso e del carattere perfettibile della realtà. La forza della posizione leopardiana consiste per lui nella rivendicazione dell’autonomia intellettuale degli individui e nel rifiuto della loro identificazione col sistema sociale. È in questa prospettiva che lo scrittore dichiara di non amare la propria epoca, e di non condividerne gli orientamenti ideologici e intellettuali. La scrittura saggistica di Brancati esprime il disagio provocato dalla crisi del fondamento morale dell’impegno politico. Un tema di grande attualità. Si esprime nei saggi di Brancati il monito a fare della coscienza morale il motore della vita sociale, e il suo principio di coesione; a ritrovare la sintesi di morale e vita, di sentimenti e impegno civile, di storia privata e storia pubblica, nella quale si è riconosciuta, in alcuni momenti storici determinati, la civiltà europea.
Complesso è il rapporto di Brancati col cinema, nel quale lavorava come sceneggiatore. Un lavoro che non lo soddisfaceva, percepito come alienato o alienante, e che definiva persino odioso; forse perché l’espressione artistica e la creatività nel cinema gli apparivano troppo condizionate da fattori esterni, economici, sociali, ideologici, da criteri collettivi, da mode e esigenze di mercato. Ad esso preferiva l’intensità e l’indipendenza della scrittura narrativa, essa sì sentita come vivifica e libera, perché in essa, osservava, il « cervello vive ancora di vita propria”.

LB: Dalla Sicilia al mondo: le chiedo infine di tracciare brevemente le principali traiettorie di collegamento tra l'intellettuale di Pachino e i contemporanei scrittori e intellettuali della sua epoca. 
R. Brancati è stato un grande interprete del suo tempo, e questo anche perché, come tutti i grandi scrittori, teneva attraverso le sue opere un dialogo costante con i suoi autori prediletti, italiani e stranieri. Il suo confronto critico con quei modelli fu sempre originale, e per questo spesso più interessante rispetto a quello che stabilivano altri scrittori italiani, anche di maggior successo. Il dissenso dal fascismo lo aveva indotto a una lettura di alcuni autori del Novecento – da Mann a Freud, a Einstein, Bergson, Ortega y Gasset – finalmente libera da fraintendimenti critici e distorsioni ideologiche, e destinata a dare un orientamento nuovo al suo progetto di scrittura. A Freud, per esempio, Brancati arriva attraverso La montagna incantata di Thomas Mann - lo si comprende dal suo primo romanzo, Singolare avventura di viaggio. E nel segno del “realismo assoluto”, egli accosta Gogol a De Roberto, poi a Flaubert, infine a Gide, uno degli scrittori contemporanei più ammirati, e che più hanno più contato per lui. Ai Journaux intimes di Baudelaire si era avvicinato forse perché ne era uscita un’edizione recente, curata da Sartre; ma aveva poi detestato l’introduzione di Sartre, affascinato invece dalla profondità di Baudelaire. L’eco dei Journaux intimes, e non se ne sono mai accorti i critici, percorre l’ultimo romanzo di Brancati; in Paolo il caldo la lacerazione devastante tra l’invocazione a Dio, desiderio di elevazione, e l’invocazione a Satana, piacere della degradazione, che travolge l’essere e lo precipita infine nel delirio, è quella a cui dà voce Baudelaire in Mon coeur mis à nu.

giovedì 11 ottobre 2018

"Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto" di Leonardo G. Luccone. Un passo sul punto e virgola

Non ho ricordi di un post di "Librobreve" sulla punteggiatura. Forse devo aver lasciato cadere qualche appunto di ammirazione per la punteggiatura in scrittori come Francesco Biamonti o Beppe Fenoglio, ma non mi sembra di aver mai pubblicato nulla su un libro interamente dedicato al punteggiare. Meglio allora porre rimedio con questo paragrafo dal recente libro di Leonardo G. Luccone intitolato Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto (Laterza, pp. 244, euro 16). Il volume è ricchissimo di esempi, agile e puntuale. In due parole potremmo dire che è un libro utile e pure godibile. Si candida a diventare un nuovo testo di riferimento su un tema che tra l'altro desta sempre interesse (si pensi anche al buon successo del Prontuario di punteggiatura di Bice Mortara Garavelli, pubblicato diversi anni fa sempre da Laterza). Abbiamo scelto un passo sul misterioso punto e virgola. Un ringraziamento a editore e autore per la concessione e la disponibilità.




Punti e virgola belli e virtuosi


Ora mettiamoci comodi e godiamoci un po’ di bella interpunzione. Traetene coraggio. Partiamo con l’incipit degli Indifferenti, opera d’esordio che Moravia pubblicò nel 1929 a sue spese. Chissà cosa sarebbe successo se fosse passata sotto il vaglio redazionale di un editore come si deve. Avrebbe mantenuto questa audacia di forma e contenuto?

Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto.
A. Moravia, Gli indifferenti, Bompiani, Milano 2015, p. 3

Come vedete abbiamo ben 4 punti e virgola su 80 parole e 484 caratteri. Se analizziamo tutta l’opera viene fuori una media di un punto e virgola ogni 34,67 parole (abbiamo un punto ogni 30,60 e una virgola ogni 13,02).
Scrittori come Baricco, Veronesi, Morante, Sciascia, Ferrante hanno rispettivamente 14.356,15 (media di sei opere); 292,90 (media di La forza del passato e Caos calmo), 167,26 (La Storia), 121,38 (Il giorno della civetta), 1.031,13 (L’amica geniale).
Ancora esempi. Cancogni mitragliatore come Moravia, Hemon delicato prosatore e punteggiatore, Bigiaretti imprevedibile, Sciascia orologiaio, Gadda supremo.

Nora aveva smesso di giovare a tennis con Liza; non era voluta andare a sciare con gli zii a Roccaraso; stava in chiusa in casa; studiava di malavoglia; evitava in genitori; non parlava; s’annoiava.
M. Cancogni, La cugina di Londra, elliot, Roma 2011, p. 30

Il treno rallentò fino a fermarsi; sentii aprirsi la porta scorrevole. Uno dei due si alzò e uscì dallo scompartimento; l’altro lo seguì. Aprii gli occhi; la porta si richiuse. I due abbassarono il finestrino e si misero a fumare. Un uomo e una donna raggiunsero il treno correndo, ciascuno con un paio di valige sbatacchianti contro i polpacci – la donna aveva uno squarcio su una gamba.
A. Hemon, «Tutto», in Amore e ostacoli, trad. it. di M. Balmelli, Einaudi, Torino 2014, p. 35

Al ritorno stiamo zitti; parla solo il barcaiolo; il ragazzetto impudente e vizioso, si spencola sul balcone di Lucia, si fa strabico sopra la mappa delle piccole tonde incomplete mammelle, slitta sulla pelle tesa e brunita delle cosce.
L. Bigiaretti, La controfigura, Bompiani, Milano 1968, p. 66

Nato nel 1917, il Marchica aveva cominciato la sua carriera nel 1935: furto con scasso; condannato. Nel 1938, incendio doloso: coloro che lo avevano, con testimonianza, fatto condannare per il furto, ebbero i covoni del grano bruciati sull’aia; per insufficienza di prove, assolto. Nell’agosto del 1943, rapine a mano armata, detenzione di armi da guerra, associazione per delinquere; giudicato dagli americani, assolto (non si capiva con quale motivazione). Nel 1946, appartenenza a banda armata: preso in un conflitto a fuoco con i carabinieri; condannato. Nel 1951 omicidio; insufficienza di prove, assolto.
L. Sciascia, Il giorno della civetta, Adelphi, Milano 2002, p. 49

Con carote e sedani, a fuoco lento, nella casseruola lunga del luccio; vi rimestava, in quello sguazzo, con un cucchiarone di legno: ne veniva una cosa piena di spini, di sedani, ma piuttosto buona di gusto. A opera finita non ne faceva che un assaggio, era lieta; regalava tutto alle donne. Le donne la lodavano della sua bravura nel cucinare, la rimeritavano della bontà.
C.E. Gadda, La cognizione del dolore, Garzanti, Milano 2003, p. 118


© Editori Laterza, 2018

martedì 9 ottobre 2018

Perrault e la morale. Uno scritto di Ludovico Setten

Pubblico di seguito uno scritto su Charles Perrault di Ludovico Setten, che ringrazio. Di Ludovico Setten si può leggere anche questo articolo su La mela nel buio di Clarice Lispector apparso su "Librobreve" lo scorso anno.

Il difensore dei Moderni

L’opera di Charles Perrault si presenta in opposizione al Classicismo del 17° secolo, che trova la sua espressione, in modo generale, nella poetica e nel pensiero di Nicolas Boileau. L’autore combatte fieramente e ostinatamente contro la concezione di superiorità dell’Epoca degli Antichi sull’Epoca di Luigi XIV e difende la creazione artistica di forme considerate nuove come, ad esempio, il conte des fées, genere letterario che lo renderà celebre.
La sua battaglia letteraria comincia nel 1687, quando presenta a l’Académie Française, di cui era cancelliere, il componimento “Il secolo di Luigi il Grande”, in cui non solamente egli diminuisce l’importanza dell’Antichità, ma afferma la superiorità artistica, scientifica e morale dell’epoca del Re Sole, affermazione che sarà ripresa e approfondita dall’autore nei quattro volumi del Parallelo degli Antichi e dei Moderni, in cui uno dei punti principali a favore dell’epoca di Luigi XIV è l’originalità, strettamente legata all’idea di novità.

La bella Antichità fu sempre venerabile,
ma non credetti mai che fosse adorabile.
Vedo gli Antichi senza piegare le ginocchia,
sono grandi, è vero, ma uomini come noi;
e si può comparare senza temere d’essere ingiusto,
il secolo di LUIGI al bel secolo d’Augusto.
[…]
Se noi volessimo togliere il velo specioso,
che la prevenzione ci mette davanti agli occhi,
e, stanchi d’applaudire a mille errori grossolani,
servirci qualche volta dei nostri lumi,
vedremmo chiaramente che, senza temerarietà,
non si può adorare tutta l’Antichità;
e ch’infine, ai nostri giorni, senza troppa confidenza,
le si può disputare il premio della scienza.[1]

Perrault, pur riconoscendo la grandezza dell’Antichità, invita i suoi contemporanei a guardare gli autori antichi con occhio critico e attento; egli propone di formare un giudizio che non sia preventivo e di utilizzare la ragione, “i nostri lumi”, per affermare la validità di un certo autore o di una certa opera; infine, egli mette in discussione qualsivoglia principio di autorità disputando agli autori classici il “premio della scienza” e i loro “mille errori grossolani”.
La posizione dell’autore è, dunque, chiarissima: non si tratta di disprezzare i grandi autori del passato, ma di mettere in evidenza le loro debolezze così come i loro meriti e qualità e, contemporaneamente, promuovere le arti e soprattutto la letteratura del 17° secolo, ritenuta superiore.
Come è stato detto, Perrault sostiene una concezione di modernità della letteratura in cui le idee d’originalità e novità sono del tutto fondamentali. Per differenziarsi degli autori francesi classici, Perrault decide di sviluppare un genere che cominciava a essere alla moda nei saloni letterari e mondani del suo tempo: il racconto. Questo genere era ben visto e apprezzato soprattutto se presentava degli aspetti d’ingenuità, ovvero se la narrazione era tratta dalla tradizione popolare. Questo tipo di racconto prenderà il nome di conte des fées. Marc Escola evidenzia chiaramente l’idea d’originalità che Perrault incarna:

[il genere] è ciò che s’inventa nella produzione dell’opera e meglio ancora nella sua ricezione. La nozione di originalità è sottomessa allo stesso spostamento: non passa attraverso le ‘varianti’ apportate a un modello canonico sempre-già disponibile, ma attraverso il ritorno di un déjà-vu, riconosciuto come tale – di in sapere che non è ‘letterario’ e che è quello di tutti, autonomo dunque dallo sguardo di ogni magistero. […] Importava che il regime ‘moderno’ fosse inassimilabile alla dottrina dell’imitazione. […] Tutto il valore di un testo, nel regime moderno che disegna questa finzione, si gioca dunque ‘a ricezione’, senz’altra mediazione che quella del lettore che prende il suo posto in una catena d’enunciazioni […].[2]



Il conte des fées: una natura morale?

Nel 17° secolo, i contes des fées avevano una natura romanzesca e completamente letteraria; erano scritti, in particolare, da signore dell’alta società, affascinate dall’elemento spettacolare che, nei contes, si converte in fiabesco. Perrault va contro la tendenza romanzesca e decide di trascrivere e rielaborare dei racconti che provengono dalla tradizione popolare orale, trasmessi generalmente da delle anziane (serve) e raccontati ai bambini: la versione definitiva di questa raccolta, edita nel 1697 da Claude Barbin, prenderà il titolo di Storie e racconti del tempo passato, con delle moralità.
Jean-Michel Adam e Ute Heidmann mettono in evidenza l’importanza della scelta del titolo dell’opera in un quadro editoriale – essendo Barbin l’editore di La Fontaine – e di continuazione della disputa tra gli Antichi e i Moderni:

Egli [Perrault] inserisce così la sua raccolta in un contesto editoriale preciso e introduce un effetto di genericità: i suoi racconti sono anche, in qualche modo, in ragione della presenza delle moralità, delle fiabe. È attorno alla questione delle “morali” e delle “moralità” che ruota una grande parte dell’argomentazione di Perrault, sia nella lettera-dedica-prefazione che nella prefazione dei racconti in versi del 1695 dove egli spiega che queste storie hanno solamente lo scopo di ‘far entrare più gradevolmente nello spirito e in un modo che istruisca e diverta insieme’ una ‘moralità lodevole e istruttiva’: ‘Ovunque la virtù è ricompensata, e ovunque il vizio è punito. [I racconti] Tendono tutti a far vedere il vantaggio che si ha a essere onesti, pazienti, accorti, laboriosi, obbedienti e il male che arriva a coloro che non lo sono.’[3]

Nella dedica di Storie e racconti del tempo passato si possono già incontrare gli obiettivi principali che Perrault si propone: raccontare delle storie che, anche se sembrano solo delle “bagatelle” per divertire i lettori, siano accompagnate da un insegnamento morale che possa favorire l’educazione dei bambini a cui le storie sono – apparentemente – indirizzate.

[I racconti] Racchiudono tutti una morale molto sensata, e che si scopre più o meno, secondo il grado di penetrazione di coloro che leggono; d’altronde, dato che niente marca tanto la vasta distesa dello spirito come potersi elevare allo stesso tempo alle più grandi cose, e s’abbassare alle più piccole; non si sarà sorpresi che nemmeno la Principessa a cui la natura e l’educazione hanno reso familiare ciò che c’è di più alto disdegni ricevere piacere da delle simili bagatelle.[4]

È interessante sottolineare come l’autore focalizzi la sua attenzione sul “grado di penetrazione di coloro che leggono”, utilizzando “i termini di ‘morale utile’ e di ‘morale molto sensata’ per designare il/i senso/i nascosto/i”[5] che il lettore deve cogliere.
Perrault non sceglie a caso delle narrazioni di origine popolare; al contrario, egli è del tutto consapevole del loro potere educativo e didattico, nascosto nell’elaborazione letteraria che si presenta tramite gli elementi dello spettacolare e del fiabesco. L’autore riconosce, nei racconti popolari, una forte moralità cristiana che egli considera necessaria all’educazione dei bambini e, soprattutto, per le giovani donne del suo tempo.
Perrault, inoltre, sottolinea l’utilità educativa, per una giovane donna dell’alta società, di conoscere la cultura del popolo:

[…] ma a chi conviene maggiormente conoscere come vivono i Popoli, se non alle Persone che il Cielo destina a condurli? Il desiderio di questa conoscenza ha spinto degli Eroi, e persino degli Eroi della vostra Razza, fin dentro a delle capanne e dei rifugi, per vederci da vicino, essi stessi, ciò che ci succedeva di più particolare, questa conoscenza essendo loro parsa necessaria per la loro perfetta educazione.[6]

L’elemento fantastico, nei contes des fées di Perrault, non è mai eccessivamente marcato. Lo scrittore vuole mantenere un certo grado di verosimiglianza, idea cara al Classicismo, per mettere in evidenza la riflessione morale, che è sempre staccata dal racconto e scritta in versi. L’autore esprime l’importanza del concetto di verosimiglianza direttamente nella dedica di Storie e racconti del tempo passato, tramite dei versi che non lasciano spazio all’interpretazione:

Potevo io meglio scegliere per rendere verosimile
Ciò che la Fiaba ha d’incredibile?
E mai Fata, un tempo,
Fece a una giovane Creatura
Più doni, e doni squisiti,
Che ve ne ha fatti la Natura?[7]

Il passaggio citato è importante al fine di comprendere l’idea poetica di Perrault e la sua concezione del conte des fées: lo spettacolare non avrà mai la forza espressiva della verosimiglianza ma può essere un elemento rappresentativo molto utile per costruire un testo letterario che possa apportare un insegnamento morale. Per Perrault, dunque, la letteratura ha un forte ruolo didattico, che si sviluppa accanto agli aspetti più puramente artistici o di divertimento.



“Barba Blu”: il Diavolo tentatore e la giustizia divina

Come è stato già brevemente accennato, la morale è una parte fondamentale dell’opera letteraria del difensore dei Moderni: nella disputa contro gli Antichi, la sua preoccupazione non è solamente quella di dare al lettore una “morale utile”, ma anche di dimostrare la superiorità della morale cristiana su quella pagana.[8]
È innegabile, tuttavia, che l’autore sia stato ispirato, in parte, da modelli classici come, ad esempio, “La favola di Amore e Psiche” di Apuleio.
Un’analisi molto interessante sul rapporto tra Perrault e i modelli classici è stata scritta da Ute Heidmann, che propone un parallelismo tra “La favola di Amore e Psiche”, Gli amori di Psiche e Cupido di La Fontaine e il racconto “Barba Blu” di Perrault. Heidmann sostiene che Perrault abbia costruito il personaggio di Barba Blu a partire da una contaminazione tra l’Amore di La Fontaine e la Venere di Apuleio:

Barba Blu esercita il suo potere tramite un mazzo di chiavi e una chiave in particolare arrogandosi un’autorità quasi divina che assomiglia fortemente a quella di Venere. […] Perrault ha cura di situare il suo personaggio dagli attributi mitologici in un ambiente “realista” che numerosi dettagli fanno riconoscere come proprio della sua epoca.[9]

Non sono del tutto d’accordo con l’analisi di Heidmann.[10] Secondo me, il personaggio di Barba Blu si ispira, in parte, a un’altra divinità della mitologia greca: Pan. L’enorme carica erotica e sessuale che Perrault attribuisce a Barba Blu, riconosciuta anche da Heidmann, unita alla descrizione del personaggio e del suo metodo per conquistare il cuore di sua moglie, mi conduce a ritenere Pan come la fonte d’ispirazione per Barba Blu:

Barba Blu, per fare conoscenza, le portò, con la loro madre e tre o quattro delle loro migliori amiche e qualche giovane del vicinato, in una delle sue case di campagna, dove restarono otto giorni interi. Si fecero solo passeggiate, partite di caccia e di pesca, danze e festini, grandi colazioni: non si dormiva assolutamente, e si passava tutta la notte a farsi delle malizie gli uni con gli altri.[11]

Tuttavia, mi sembra che Pan sia un’ispirazione alterata da un’immagine di origine cristiana, come sostiene James Hillman nel suo Saggio su Pan:

Tutti gli dei avevano degli aspetti naturali e potevano essere trovati nella natura, e questo ha indotto taluni a concludere che l’antica religione mitologica era essenzialmente una religione naturale, il cui trascendimento da parte del cristianesimo significò soprattutto la repressione del rappresentante della natura, Pan, che ben presto divenne il Diavolo dai piedi di capro. […]
Il capro solitario è infatti sia l’Unico che l’isolamento, una maledetta esistenza nomadica in luoghi deserti, che il suo appetito rende ancora più deserti, e il suo canto, ‘tragedia’. […]
Quando l’umano perde la connessione personale con la natura personificata e l’istinto personificato, l’immagine di Pan e l’immagine del Diavolo si mescolano.[12]

Mi sembra che Barba Blu sia una rappresentazione del Diavolo, figura che, come Hillman spiega, è tratta e adattata dalla mitologia greca e, in particolare, dal dio Pan. Il personaggio descritto da Perrault presenta i dettagli introdotti da Hillman, ma con un’accezione cristiana, data dalla presenza delle moralità alla fine del racconto; l’idea di morale suppone necessariamente un’idea di assoluto da cui dipendano bene e male, essendo Dio questa idea assoluta, creato dall’uomo. Un breve passaggio da I fratelli Karamàzov di Fëdor Dostoevskij descrive chiaramente questa nozione: “se infatti non esiste il Dio infinito, allora non c’è neanche la virtù, e non ce n’è neanche bisogno, allora”.[13]
Barba Blu è dunque il Diavolo tentatore e persecutore, colui che “proibendole [alla moglie] di aprire lo stanzino nell’ ‘appartamento in basso’, tenta la curiosità della giovane donna con la stessa perfidia con cui Venere invia Psiche negli inferi a cercare uno scrigno di belletto di bellezza divina, […] proibendole di aprirlo”.[14]
Un altro elemento che mi conduce a vedere Barba Blu come allegoria del Diavolo/Pan è la descrizione del movimento del personaggio; nel racconto, si può notare come il protagonista resti sempre allo stesso livello di altezza spaziale; la sua vera personalità è nascosta nell’ ‘appartamento in basso’, che ricorda l’abitazione di Lucifero o le grotte di Pan: “le ‘oscure caverne’ dove lo si poteva incontrare […] furono dilatate dai neoplatonici fino a indicare i recessi materiali in cui risiede l’impulso, gli oscuri fori della psiche da cui nascono desiderio e panico”.[15]
Una volta deciso a uccidere sua moglie, Barba Blu non sale mai al piano superiore della sua abitazione, da dove la donna prega al soccorso, dimostrando così un rifiuto totale a distaccarsi dalla propria spazialità:

Tuttavia, Barba Blu teneva in mano un gran coltellaccio, urlava a sua moglie con tutta la sua forza, scendi presto, o salirò lassù. […] Scendi velocemente, urlava Barba Blu, o salirò lassù. […] Non vuoi scendere, urlava Barba Blu. […] Barba Blu si mise a urlare così forte che tutta la casa tremò. La povera donna scese. […][16]

In questo racconto, Perrault presenta al lettore il tema della curiositas. Prima di divenire un elemento di riflessione tipicamente cristiano – l’esempio più poeticamente riuscito lo si ha con la storia di Ulisse nella Divina Commedia di Dante Alighieri[17] questo era un topos della letteratura antica. Perrault, seguendo il modello classico, condanna la curiosità:

La curiosità, malgrado tutte le sue attrazioni,
Costa ben spesso dei rimpianti;
Se ne vedono, tutti i giorni, numerosi esempi apparire.
È, non ne dispiaccia al sesso, un piacere ben leggero.
Da quando lo si prende, cessa di essere.
E sempre costa troppo caro.[18]

Perrault, ciononostante, vuole modernizzare il suo racconto e renderlo utile ed educativo: ecco perché decide di inserire la scena della preghiera e della lotta della sposa di Barba Blu che, d’accordo con sua sorella, chiede soccorso ai suoi fratelli, dei cavalieri che, infine, uccidono il malvagio marito.
La curiosità trasgressiva non costituisce, come afferma Heidmann, un “atto di sopravvivenza necessario in una società che sacrifica le sue ragazze nubili ‘vendendole’”[19], ma è piuttosto un richiamo a “servirsi dei nostri lumi”.[20]
La moglie di Barba Blu fa parte di coloro “che la ragion sommettono al talento”[21]; lasciandosi persuadere dalle grandi feste organizzate da Barba Blu, la giovane donna non utilizza lo spirito della sua ragione e consente a sposare Barba Blu, poiché “cominciò a trovare che il padrone del luogo non aveva più la barba così blu, e che era un uomo molto onesto”.[22] Questa era la vera possibilità che la giovane donna aveva di utilizzare la ragione per evitare un matrimonio pericoloso.
La morale cristiana concentra la sua attenzione in particolare su tutto ciò che non si deve fare. Gli insegnamenti morali che Perrault esprime trovano il loro fondamento in un modello che, con una esposizione più o meno diretta, presenta sempre una frase negativa – esplicita o implicita – dove si ha una “fabbricazione dell’ideale”: non si deve.[23]
Perrault lascia intendere un’idea di giustizia divina totalizzante. Nel racconto, il lettore non ha mai la possibilità di vedere la storia dal punto di vista di Barba Blu. La terza persona singolare che l’autore utilizza ha la funzione di nascondere, in realtà in modo non veramente efficace, la vera prospettiva di osservazione, quella della giovane sposa. Attraverso un sentimento di empatia con la protagonista, il lettore riconosce istantaneamente Barba Blu come il nemico o, per utilizzare un termine narratologico, l’antagonista.
Barba Blu è dunque il personaggio malvagio a priori e la giovane donna la rappresentante del bene e del buono. Nietzsche spiega, in un modo che potrebbe essere considerato polemico, il ragionamento che conduce a questa prospettiva:

E l’impotenza che non si prende la rivalsa, deve essere falsata in “bontà”; la timorosa abiezione in “umiltà”; la sottomissione dinanzi a coloro che odiamo in “obbedienza” (obbedienza, cioè, a uno che dicono imponga questa sottomissione – lo chiamano Dio). L’inoffensività del debole, la stessa codardia di cui costui è ricco, il suo stare alla finestra, il suo inevitabile dover aspettare, acquista ora un buon nome, in quanto “pazienza”, e viene altresì a significare la virtù stessa; […] forse questa miseria sarebbe altresì una preparazione, una prova, un ammaestramento, e forse ancora di più – qualcosa che un giorno verrà compensato e pagato con enormi interessi in oro, ma che dico! in felicità. Ed essi chiamano tutto ciò “beatitudine”. […] Odo soltanto ora quel che essi già tanto spesso dicevano: “Noi buoni – noi siamo i giusti” – a quel che pretendono non dànno il nome di rivalsa, bensì di “trionfo della giustizia”; quel che essi odiano non è il loro nemico, no! Essi odiano “l’ingiustizia”, “l’empietà”; quel che credono e sperano, non è la speranza della vendetta, l’ebbrezza della dolce vendetta (“più dolce del miele” – già la chiamava Omero), bensì la vittoria di Dio, del Dio giusto sugli empi.[24]

Tutti questi elementi sono presenti nel personaggio della giovane sposa che, a parer mio, incarna ed esplicita un’idea di giustizia totalmente cristiana. Il semplice fatto che la protagonista, una volta scoperta da suo marito, sia completamente rassegnata alla morte e gli domandi “un po’ di tempo per pregare Dio” e che, alla fine, quando vede giungere i suoi fratelli, esclami “Dio sia lodato”, dimostra un carattere d’impotenza che si trasforma in domanda di giustizia divina.[25]
Pensare che Barba Blu non sia cattivo può risultare immorale: è doveroso ricordare, però, che l’idea stessa di morale discende da una prospettiva platonico-cristiana.[26]
Ecco perché Barba Blu è identificato con il Diavolo/Pan: egli rappresenta ciò che Nietzsche chiama “il signore”, portatore dell’“ideale aristocratico”, ovvero cosciente di se stesso in tutta la propria completezza. Barba Blu, accettando la sua vera natura, arriva a imporre il suo volere su chi, come la giovane sposa, non è riuscito a rendersi forte. Questo tipo di personaggio, allora, dà un nuovo significato ai termini “buono” e “cattivo”, in opposizione alla concezione del “signore”:

Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un “di fuori”, a un “altro”, a un “non io”: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori – questo necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi – si conviene appunto al ressentiment: la morale degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione.[27]

Mi sembra che il caso della giovane sposa risponda completamente a questa analisi; in questo racconto, dunque, Perrault propone una morale che, per definizione e per sviluppo, può essere solamente e fondamentalmente cristiana; una morale che impone, dall’esterno, delle regole necessarie di comportamento che sono sempre dialetticamente in opposizione a dei comportamenti differenti.
Per concludere, ritengo che, presentando al lettore una morale pienamente cristiana, Perrault riesca nel suo proposito di esaltare l’epoca di Luigi XIV, un re che, incarnando le idee di potere assoluto e di diritto divino, rientra perfettamente in questa concezione di morale: il solo modo, infatti, di soddisfare una società guidata da un potere assoluto, è di darle una morale che sia, a sua volta, assoluta.

Bibliografia

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Perrault, Charles, Le siècle de Louis le Grand, éd. Jean Baptiste Coignard, Paris, 1687.

Perrault, Charles, Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités, éd. Claude Barbin, Paris,
1697.


Note

*Dove non diversamente indicato, le traduzioni delle opere sono da intendersi a cura dell'autore di questo scritto.



[1] Perrault, Charles, Le siècle de Louis le Grand, éd. Jean Baptiste Coignard, Paris, 1687, p. 3-4. 
[2] Escola, Marc, Marc Escola commente : ‘Contes’ de Charles Perrault, Editions Gallimard, Paris, 2005, p. 67-69. 
[3] Adam, Jean-Michel, Heidmann, Ute, « Des genres à la généricité. L’exemple des contes (Perrault et les Grimm) »,
Langages 2004/1 (n° 153) p. 64. 
[4] Perrault, Charles, Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités, éd. Claude Barbin, Paris, 1697, p. 4-5. 
[5] Adam, Jean-Michel, Heidmann, Ute, « Des genres à la généricité. L’exemple des contes (Perrault et les Grimm) »,
Langages 2004/1 (n° 153), op. cit. p. 64.
[6] Perrault, Charles, Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités, op. cit., p. 5.
[7] Ibid. p. 6.
[8] Cfr. Escola, Marc, Marc Escola commente : ‘Contes’ de Charles Perrault, op. cit., p. 41: “I racconti ‘moderni’ hanno inoltre e soprattutto questa superiorità sulle fiabe dei pagani, che la loro morale è più chiara, e meglio conforme alla religione cristiana e alla semplice ‘onestà’ che le fiabe dei pagani”.
[9] Heidmann, Ute, « Comment faire un conte moderne avec un conte ancien ? Perrault en dialogue avec Apulée et La Fontaine », Littérature 2009/1 (n°153), p. 28.
[10] Per le tematiche di “Barba Blu”, cfr. Heidmann, Ute, « La Barbe bleue palimpseste. Comment Perrault recourt à Virgile, Scarron et Apulée en réponse à Boileau », Poétique 2008/2 (n° 154).
[11] Perrault, Charles, « La Barbe bleue », Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités, op. cit., p. 58.
[12] Hillman, James, Saggio su Pan, Adelphi Edizioni, Milano, 1977, p. 49-59.
[13] Dostoevskij, Fëdor, I fratelli Karamàzov, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1994, p. 873.
[14] Heidmann, Ute, « Comment faire un conte moderne avec un conte ancien ? Perrault en dialogue avec Apulée et La Fontaine », Littérature 2009/1 (n°153), op. cit., p. 31.
[15] Hillman, James, Saggio su Pan, op. cit., p. 50.
[16] Perrault, Charles, « La Barbe bleue », Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités, op. cit., p. 57-82.
[17] Cfr. Alighieri, Dante, “Inferno”, canto 26, versi 112-120, Divina Commedia, Arnoldo Mondadori Editore, collezione I Meridiani, Milano, 1991, p. 786-789.
[18] Perrault, Charles, « La Barbe Bleue », Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités, op. cit. p. 82.
[19] Heidmann, Ute, « Comment faire un conte moderne avec un conte ancien ? Perrault en dialogue avec Apulée et La Fontaine », Littérature 2009/1 (n°153), op. cit., p. 34.
[20] Perrault, Charles, Le siècle de Louis le Grand, op. cit., p. 4.
[21] Alighieri, Dante, “Inferno”, canto 5, verso 39, Divina Commedia, op. cit., p. 143.
[22] Perrault, Charles, « La Barbe bleue », Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités, op. cit., p. 57-82.
[23] Nietzsche, Friedrich, “‘Buono e malvagio’, ‘Buono e cattivo’”, Genealogia della morale, Adelphi Edizioni, Milano, 1968, p. 36.
[24] Ibid., p. 36-37.
[25] Perrault, Charles, « La Barbe bleue », Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités, op. cit., p. 57-82.
[26] Cfr. Leopardi, Giacomo, Zibaldone di Pensieri, Vol. 1, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1983, p. 483-484. “[…] supporre il bello e il buono assoluto, è tornare alle idee di Platone, e risuscitare le idee innate dopo averle distrutte, giacché tolte queste, non v’è altra possibile ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così o così, buone queste o cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto. […] Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio.”
[27] Nietzsche, Friedrich, “‘ Buono e malvagio’, ‘Buono e cattivo’”, Genealogia della morale, op. cit., p. 26.