martedì 8 maggio 2018

La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920). Un'intervista di Franco Baldasso a Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè e Michele Sisto

Librobreve intervista #82

Di seguito potete leggere un'intervista a Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè e Michele Sisto, autori del libro La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920) recentemente pubblicato da Quodlibet (pp. 320, euro 22). L’autore dell’intervista è Franco Baldasso, che insegna Italian Studies al Bard College di New York. Ringrazio intervistati e intervistatore per la cura e la collaborazione.


D.: Sarebbe bello cominciare l'intervista con il racconto delle persone, degli incontri, delle discussioni che hanno fatto partire questa importante iniziativa.

R.: Grazie per questa domanda, che ci permette di aprire una finestra sul modo con cui abbiamo lavorato nei cinque anni del progetto di ricerca di cui questo libro è il risultato. Come speriamo risulti chiaro a chi ci leggerà, si tratta di un libro concepito e discusso da un gruppo, non della raccolta di cinque saggi di cinque autori su uno stesso argomento. Dal 2013, anno di avvio del progetto, ci siamo incontrati regolarmente, ogni mese, per ragionare insieme sulla nostra domanda fondamentale: che cos’è stata la letteratura tedesca in Italia nel corso del Novecento?
Man mano che procedevamo, ci siamo resi conto che le nostre forze non bastavano a seguire tutte le piste – o che comunque avevamo bisogno di confrontarci con chi aveva lavorato o stava lavorando sugli stessi argomenti o su argomenti diversi con obiettivi simili ai nostri. Nell’arco dei cinque anni, perciò, abbiamo spesso invitato alle nostre riunioni gli studiosi di cui ci interessavano le ricerche: e ci siamo accorti che l’interesse – quasi vorace –  che abbiamo sempre manifestato per il lavoro degli altri ha creato dei legami forti anche con studiosi esterni al gruppo: forse perché, per come è strutturato oggi il lavoro all’università, passare un pomeriggio intero a raccontare un proprio libro, o un saggio, o il progetto di un libro o di un saggio è un’occasione rara. E infatti molti dei nostri “ospiti” sono poi diventati collaboratori: c’è chi ha accettato di prendere in gestione parti del database di traduzioni di letteratura straniera in Italia che abbiamo costruito, allargandolo a letterature diverse dalla tedesca; c’è chi si è messo studiare la traiettoria dei più importanti mediatori di letteratura in Italia, che confluiranno nel portale che ospita la banca dati; c’è chi ci ha letto, o ci ha dato da leggere i suoi lavori, chi ha partecipato ai nostri seminari o ci ha invitato a convegni. In questi cinque anni abbiamo insomma davvero lavorato “in gruppo”: cosa che, perlomeno in ambito umanistico, in Italia si fa di rado, perché è diffusa un’idea del lavoro di ricerca come tenzone singolare, individuale, con un grande testo o un grande problema.

D: Un lavoro del genere ha bisogno di istituzioni che siano sensibili e che possano garantirvi un'opportuna copertura finanziaria - oltre che gli strumenti della ricerca. Potresti raccontarci come tutto questo è avvenuto? (Anche per raccontare un modello di finanziamento della cultura che solo in parte viene dalle istituzioni universitarie).

R.: In effetti questi cinque anni di lavoro comune sono stati favoriti da circostanze eccezionali nell’ambito della ricerca italiana. Nel 2008 e nel 2012 il Ministero dell’Università e della Ricerca ha istituito un programma di finanziamento, con due linee specifiche dedicate a ricercatori “non strutturati”, cioè senza impiego, modellato sui progetti europei ERC e che permetteva di richiedere finanziamenti altrettanto consistenti: l’obiettivo era quello di creare gruppi di ricerca che lavorassero su progetti d’avanguardia, finanziandoli adeguatamente. Già due anni dopo, con la trasformazione del FIRB in SIR, il finanziamento si era contratto, e gli uffici di ricerca delle università sconsigliavano di presentare progetti di gruppo – sostanzialmente, i SIR, perlomeno in ambito umanistico, sono tornati a favorire progetti individuali, gestiti da un singolo ricercatore. Insomma siamo stati fortunati innanzitutto perché siamo riusciti a infilarci, con il nostro progetto, in questa finestra di breve durata.
Il Ministero ci ha finanziato per un totale di quasi 800mila euro: possono sembrare tanti, ma in realtà sono serviti soprattutto a finanziare per cinque anni tre contratti RTDa (da ricercatore a tempo determinato senza tenure), destinati ai responsabili delle tre unità di ricerca (Michele Sisto all’Istituto italiano di studi germanici in Roma; Anna Baldini all’Università per Stranieri di Siena; Irene Fantappiè a Sapienza Università di Roma). Se il nostro gruppo ha potuto allargarsi è stato grazie a Irene, che ha rinunciato al suo contratto e ha continuato a collaborare con noi pur essendo inquadrata e stipendiata dalla Humboldt Universität zu Berlin: si sono così aggiunte al gruppo anche Daria Biagi e Stefania De Lucia. Un ulteriore allargamento l’abbiamo avuto due anni fa, quando Michele è diventato professore associato a Pescara e Anna Antonello ha vinto il concorso per subentrargli come ricercatrice all’IISG.
Il resto del budget ci è servito a finanziare la costruzione della banca dati sulla letteratura tradotta in Italia nel Novecento, che, rispetto al progetto originario incentrato sulla letteratura tedesca, ora si è estesa ad altre letterature; il portale che la ospita sarà on-line, da giugno, all’indirizzo www.ltit.it.

D.: Il libro in questione fa parte di un più ampio progetto sulla letteratura tedesca in Italia nel Novecento. Potreste delinearne le linee guida e i contorni?

R.: L’idea di fondo del progetto non riguarda soltanto la letteratura tedesca: siamo convinti che la letteratura tradotta in generale vada studiata come parte integrante della letteratura italiana. Il sistema che fa l’una e l’altra è lo stesso – non solo nel senso che l’editoria pubblica allo stesso modo scrittori italiani e scrittori tradotti, ma anche perché le logiche che portano i primi a scrivere certe opere e non altre, in un certo modo e non in un altro, sono le stesse che portano a tradurre certi libri e non altri, in un determinato modo e non altrimenti.
Come conseguenza di questa convinzione di fondo, nel nostro lavoro abbiamo dato grande importanza alle persone che fanno i libri e orientano queste logiche. Abbiamo indagato gli attori della vita letteraria italiana, sia quelli che sono entrati stabilmente nel nostro canone, sia quelli che oggi sono meno conosciuti, ma che spesso hanno esercitato un ruolo importante nel transfer letterario: qual è stata la posizione di queste persone nel campo letterario italiano? Come hanno selezionato i testi da tradurre, e perché (per ragioni di mercato, per affinità letterarie, per relazioni personali…)? In che contesto sono stati inseriti gli autori e i testi tradotti, cioè in quale collana, in quale rivista, in quale progetto letterario? E come vengono interpretati, “marchiati”, e canonizzati gli autori e i testi tradotti? Il nostro lavoro ha cercato insomma di ricostruire il contesto che ha portato una certa opera straniera a esistere in lingua italiana.
Chi userà il portale www.ltit.it, troverà perciò, accanto ai dati sui libri tradotti, informazioni e studi sulle traiettorie biografiche e professionali dei mediatori di letteratura: traduttori, direttori di collana, specialisti delle singole letterature, critici letterari, giornalisti, docenti. Anche nel libro abbiamo inserito cinque di queste traiettorie: quelle di due traduttori, Rosina Pisaneschi e Alberto Spaini; quelle di due mediatori di solito non associati alla letteratura tedesca, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini (che sono stati sia traduttori che direttori di collana e di riviste); e infine quella di un editore, Rocco Carabba di Lanciano.

Vincenzo Errante
D.: Inevitabilmente la vostra trattazione rappresenta anche un importante contributo di storia dell'editoria in Italia e molto bello, tra gli altri, è il capitolo antologico finale (dove si riprende l'invettiva di Gobetti contro Treves). Nell'ambito della storia dell'editoria, qual è o quali sono gli aspetti più curiosi nei quali vi siete imbattuti proponendo questa introduzione alla letteratura tedesca in Italia nelle prime due decadi del Novecento?

R.: Uno dei più curiosi è senz’altro che a fondare e dirigere le collane di letterature straniere di alcune delle principali case editrici italiane siano stati dei germanisti, nel senso stretto di professori di letteratura tedesca all’università: è Borgese a ideare «Antici e moderni» di Rocco Carabba, editore molto importante negli anni ’10 e ’20 anche perché legato all’avanguardia fiorentina, e più tardi, nel 1930, sempre Borgese inventa per Mondadori la «Biblioteca Romantica», un capolavoro nel genere (si può essere d’accordo con Calasso quando sostiene che la collana è un genere letterario a sé); Guido Manacorda, rivale di Borgese nel 1910 al concorso per la cattedra di letteratura tedesca Roma e poi vincitore a Napoli, dirige prima la collana di Laterza «Scrittori Stranieri», voluta da Croce come pendant agli «Scrittori d’Italia», poi la «Biblioteca Sansoniana Straniera», prima collana italiana con testo originale a fronte; Arturo Farinelli, professore a Torino e fondatore della prima scuola germanistica italiana, dirige «I Grandi Scrittori Stranieri» di UTET, in cui escono numerosissime prime traduzioni; nei primi anni ’40 il successore di Borgese sulla cattedra di Milano, Vincenzo Errante, inventa per il giovane Aldo Garzanti gli «Scrittori Stranieri», collana di non grande importanza, ma anch’essa sintomatica della tendenza.
Ma l’aspetto più interessante, credo, resta quello strutturale: il legame, quasi sempre presente, tra una casa editrice che innova sul piano dei programmi di traduzione e un’avanguardia letteraria che innova sul piano delle poetiche. Dietro una collana innovativa c’è quasi sempre, se non un germanista, uno scrittore o un critico o un traduttore formatosi nei circuiti della militanza letteraria, personaggi che hanno una ben precisa visione della letteratura: i casi ben noti di Vittorini e Pavese, che sembrano eccezionali, rientrano invece in una regolarità. Solo che non sempre abbiamo a che fare con figure canonizzate: spesso si tratta di “perdenti” nella lotta per la consacrazione. È il caso di Enrico Filippini, scrittore legato alla neoavanguardia, attivo nella Feltrinelli degli anni ’60; ma, passando in rassegna gli organigrammi delle case editrici, anche di quelle attive oggi, i nomi si moltiplicherebbero.

D.: Parlare di letteratura tedesca in Italia significa parlare di traduzione come pratica culturale e di traduzioni dei singoli testi. C'è un concetto tra altri che è parso molto utile, quello di “postura” autoriale, che torna a galla nelle varie parti del libro. Per certi aspetti pare tuttora centrale o comunque resistente. Vorreste brevemente illustrarlo?

R.: La nozione di “postura” ci è parsa rilevante poiché, nel corso delle nostre ricerche, ci siamo resi conto che tradurre letteratura straniera è qualcosa che va ben al di là del volgere in italiano questo o quel testo, ed è anche qualcosa che non influenza solo quelle che si usa chiamare le “poetiche” dei singoli autori o la gerarchia dei generi letterari, ma anche le identità degli autori di una determinata area linguistico-letteraria. Abbiamo ricavato il concetto dagli studi del critico svizzero Jérôme Meizoz, che ne ha parlato soprattutto in Postures (2007), La Fabrique des singularités (2011) e più recentemente La Littérature “en personne” (2016). Con “postura” Meizoz intende l’identità dell’autore all’interno del campo letterario che, oltre a essere ben distinta da quella biografica, va pensata come un costrutto realizzato sia dall’autore stesso sia dal contesto che lo circonda. La “postura”, insomma, consente di superare la problematica ma duratura contrapposizione tra un’idea di “autore” ancorata alla poetica, che spesso ne esalta la singolarità o addirittura l’unicità, e una nozione di “autore” legata alla storia, a una dimensione collettiva e pubblica. Questo concetto è risultato utile soprattutto per la linea di ricerca che nel libro corrisponde al quarto capitolo, e che si concentra sui paradigmi che orientano la mediazione letteraria: tra i principali modi di intendere la traduzione nell’ambiente delle riviste fiorentine del periodo 1900-1920 c’è infatti quello che intende la traduzione stessa come una importazione non tanto di singoli testi quanto piuttosto della persona dell’autore, appunto della sua “postura” autoriale.
                              
Pierre Bourdieu
D.: Le basi teoriche del vostro lavoro sono meritevoli di un approfondimento. Il discorso della sociologia della letteratura oggi può sfociare in luoghi comuni spesso non approfonditi, nonostante la rilevanza e l'ineccepibilità di un'apertura dello studio della letteratura agli altri campi e all'attualità. Ci potreste parlare delle vostre scelte teoriche, condivise o meno dall'intero gruppo di ricerca?

R.: Le prime due linee della nostra ricerca – quella sull’editoria e quella che individua le logiche del transfer nelle dinamiche del conflitto interno al campo letterario italiano – si sono servite principalmente degli strumenti messi a punto dal sociologo francese Pierre Bourdieu, la cui particolarità è quella di non limitarsi a studiare gli oggetti di ricerca tradizionali della sociologia della letteratura (mercato, paraletteratura, pubblico). Per come sono istituite le discipline letterarie in Italia, la sociologia della letteratura è vista, quando va bene, come un campo di studi a sé, quando va male, come una disciplina incapace di comprendere autenticamente la letteratura. Bourdieu invece ha provato a spiegare l’intero spettro della produzione letteraria, materiale e simbolica, studiando grandi autori del canone occidentale: Flaubert (Les Règles de l’art, 1992), Heidegger (L’Ontologie politique de Martin Heidegger, 1988), Manet (Manet. Une révolution symbolique, 2013). Da questa prospettiva abbiamo imparato a tenere insieme le cose: a non studiare un testo o un autore isolatamente, ma a vederli inseriti in un campo di relazioni e di conflitti, ridando senso alle battaglie che i letterati del passato hanno combattuto, in cui hanno investito la loro esistenza. È un modo molto umano (ma non troppo umano) di studiare qualcosa che di solito ci viene raccontato in maniera astratta, cristallizzata, distaccata.
L’armamentario teorico desunto da Bourdieu, però, poteva aiutarci soltanto fino a un certo punto. Quando si è trattato di lavorare concretamente sui testi – compito della terza delle nostre unità di ricerca – è stato subito chiaro che avevamo bisogno di ricorrere ad altri strumenti, forniti da discipline che per il nostro progetto si sono rivelate altrettanto importanti: dalla filologia testuale alle più recenti acquisizioni dei translation studies, dalla storia della letteratura all’analisi linguistica. Data la complessità del nostro oggetto, d’altra parte, la “cassetta degli attrezzi” non poteva che essere plurale, eclettica; e ciascuno di noi, a seconda dell’argomento scelto per i propri individuali approfondimenti, a seconda dei propri interessi e della propria formazione – che per molti di noi non è di stampo sociologico ma filologico o storico-letterario – si è costruito o ha scelto un approccio individuale. Questa pluralità ha arricchito non poco il dialogo all’interno del gruppo, e ha contribuito – o almeno così speriamo – a rendere i risultati della ricerca più sfaccettati.                                                                                                                      
Andrea Maffei (1798 - 1885)
D.: State assiduamente lavorando sul Novecento. Avete mai pensato di affrontare anche gli scorsi secoli, con l'Ottocento per esempio?

R.: Quella di affrontare l’Ottocento è stata una idea ricorrente e anche, spesso, una tentazione alla quale resistere. È innegabile che la storia della ricezione di alcuni autori e opere nel Novecento italiano abbia una tradizione che affonda le sue radici nel secolo precedente: sono molte le traduzioni ottocentesche che continuano a circolare nel secolo successivo, talora con minime varianti, altre volte senza alcun tipo di modifica al testo tradotto, se non l’aggiunta di nuovi apparati paratestuali. Tra i progetti futuri di alcuni di noi c’è proprio quello di ripercorrere la storia della letteratura tedesca in Italia a ritroso fino ai suoi inizi, che poi non sono troppo remoti: Paola Maria Filippi ha documentato che la prima traduzione di un testo letterario dal tedesco, il poemetto fisico L’origine del lampo di Tiller, risale al 1756. Possiamo anche citare già alcuni studi nati in questa prospettiva: Michele Sisto, per esempio, ha iniziato a ricostruire le vicende traduttive e editoriali del Faust di Goethe, da Giovita Scalvini al presente, mentre Laura Petrella, che facendo il dottorato di ricerca è entrata nell’orbita del nostro progetto, sta ricostruendo la traiettoria di Andrea Maffei come traduttore non solo del Faust ma anche di Gessner, Schiller, Heine, Shakespeare e molti altri.

Uwe Johnson
D.: Quale ruolo e quale ricezione ha invece la letteratura tedesca oggi in Italia?

R.: Se consideriamo che oggi circa l’80% delle traduzioni letterarie sono dall’inglese, la letteratura tedesca ha un peso certamente più limitato rispetto agli anni 1930-1980, che, visti sul lungo periodo, risultano una sorta di cinquantennio d’oro, per molti versi eccezionale. Ma più della quantità conta, oggi come per il periodo che abbiamo studiato, la qualità, vale a dire i progetti editoriali legati a una visione specifica della letteratura, in grado di far diventare uno scrittore tedesco patrimonio della cultura letteraria italiana, di dargli una posizione e un capitale simbolico. Uno scrittore che è diventato imprescindibile per chi si forma letterariamente oggi è Thomas Bernhard, che Einaudi e soprattutto Adelphi hanno consacrato inserendolo in progetti editoriali peraltro assai diversi, anzi, quasi antitetici. Senza Bernhard i libri di Paolo Nori o di Vitaliano Trevisan non sarebbero quello che sono. Lo stesso, in misura appena minore, si può dire di W.G. Sebald, di cui Adelphi ha addirittura ri-tradotto molti volumi.
Vero è che dopo Sebald è difficile individuare autori che godano da noi di una consacrazione altrettanto ampia; forse Christa Wolf, che e/o ha introdotto fin dagli anni ’80 nei circuiti della ricerca letteraria al femminile, ha avuto un ruolo importante nella scrittura di Elena Ferrante. Ma altri scrittori notevoli proposti più recentemente, come Marcel Beyer, Uwe Timm, Ingo Schulze, Christian Kracht, Terézia Mora, Clemens Meyer o gli stessi premi Nobel Elfriede Jelinek e Herta Müller non sembra siano stati metabolizzati, anche perché di rado sono stati proposti in contesti collegati alla militanza letteraria. D’altra parte i grandi editori spesso si limitano a tradurre scrittori di lingua tedesca che hanno avuto successo in patria o che hanno vinto premi, mentre le giovani case editrici più vicine ai movimenti letterari, come Minimum Fax, in genere non sono interessate alla letteratura tedesca; quelle che lo sono, come Keller, Del Vecchio o L’Orma, hanno meno legami con gli scrittori italiani, almeno per ora. Forse oggi sono più vitali alcuni recuperi di scrittori del medio Novecento, come Arno Schmidt, a cui Domenico Pinto ha dedicato la collana «Arno» presso Lavieri e diversi interventi su Nazione Indiana, o Uwe Johnson, di cui L’Orma ha da poco finito di tradurre i quattro volumi de I giorni e gli anni, opera importante per uno scrittore come Roberto Saviano, che Feltrinelli aveva abbandonato al secondo volume. Ma bisognerà aspettare per comprendere gli sviluppi di lungo periodo.

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