mercoledì 18 aprile 2018

"Le vite potenziali" di Francesco Targhetta (o dell'infinito debutto)

Nel 1892 Italo Svevo dava alle stampe per l'editore triestino Vram un libro dal titolo semplice quanto disarmante: Una vita. Non ce ne accorgiamo mai a sufficienza, ma questa che viviamo è appunto una vita e potrebbe essere (verosimilmente?) la sola che abbiamo avuto e avremo. Il primo lavoro in prosa del poeta nonché cultore e curatore di poeti crepuscolari Francesco Targhetta si intitola invece Le vite potenziali (Mondadori, pp. 252, euro 19). Al di là dell'imbeccata sveviana, che potrebbe tornare utile ma che lasceremo parzialmente in ombra, questo pensiero serviva per parlare di una titolazione bifronte che allude sia alle vite possibili a cui potrebbe aspirare una singola persona, sia alle vite potenziali di un gruppo di persone riprese in un dato contesto storico, secondo una comunanza di spazio e tempo o per meglio dire di lavoro (il lavoro come spazio-tempo, anche). Nelle pagine de Le vite potenziali leggiamo di un manipolo di programmatori itineranti e gravitanti attorno a un'azienda informatica di Marghera, luogo-membrana e ectoplasma urbano-industriale di cui proprio nel 2017 si è ricordato il centenario (da rileggere, anche per capire Marghera - e da rileggere senza forse - è lo scritto Venezia, forse di Andrea Zanzotto). Non occorre aver studiato filosofia per intuire che l'altra metà del "potenziale" evocata dal titolo riguarda l'atto, parola che fa pericolosamente rima con fatto: una domanda che potrebbe porsi il lettore a libro ultimato è allora la seguente: come si era "in potenza" quello che siamo diventati poi, in "atto"? O se vogliamo, più circostanziatamente, come erano in potenza i protagonisti di questo libro prima di essere come li vediamo e ascoltiamo dialogare tra le pagine? La domanda è rivolta a noi, ma chiaramente è da intendersi calata nella scelta dei contenuti e dei personaggi che muove questo testo, il quale indugia su un loro presente comune ma non dimentica di affondare a più riprese nei loro passati, incistati in quel momento in cui il mondo ha imposto accelerazioni impressionanti a tutto e tutti, mettendo drammaticamente in crisi anche le capacità di scelta, azione e reazione dell'uomo. Anche attorno a questi nuclei di riflessioni credo si potrà parlare del libro di Francesco Targhetta tra qualche tempo.

Passando alla storia potremmo rilevare questo: se una delle critiche più facili e immediate che viene spesso mossa al battaglione dei poeti che provano la strada della prosa e del romanzo è quella di parlare di sé stessi, su questo specifico rischio Targhetta è stato molto accorto, persino furbo, oppure callido verrebbe da dire usando una parola dal sapore dell'epica letta in classe. Ci parla di una realtà che non è la sua (per chi non lo conosce - e non è il mio caso - lo possiamo comunque apprendere dalle varie note biografiche: è insegnante) e per giunta plasma la propria vicenda senza flettere verso un vero protagonista, ma lasciando singolarmente a una triangolazione di co-protagonisti l'incombenza di muovere la propria trama e la propria narrazione verso un finale, potenziale anche quello. Si tratta dunque di una scrittura che si pone con un piglio esplorativo e sperimentale, etnometodologico, di osservazione partecipante, ma nella quale assai spesso fiora una temperatura linguistica e un'auscultazione lessicale che è propria della poesia. E se con il precedente romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie (Isbn, 2012) Targhetta aveva prestato la penna al tema caldo del precariato, ora si cimenta con un romanzo pienamente incentrato sulla sfera della quotidianità operativa di un'azienda (di un intero settore, a ben vedere) tralasciando quel tema, così facile e lesto a trasformarsi in pericolosa etichetta. In questo caso il lavoro non manca e non traballa forte, e la lente si adagia sostanzialmente sul mondo dei nerd informatici che, senza essere protagonisti del mondo, pare abbiano comunque pian piano mutato questo mondo in cui quotidianamente ci muoviamo, acquistiamo, ci informiamo, cerchiamo appunto di espandere le nostre potenzialità all'infinito, in un'illusione di vita multipla che si gonfia velocemente come una bolla di sapone.

Per i motivi detti sopra, inclusa l'auscultazione massima, accade che in un libro così progettato la prosa messa in pagina sia spesso uno slalom tra corsivi che marcano il linguaggio specialistico, o il gergo che caratterizza la parlata aziendale o la scrittura dei contratti (con l'ironia ad esempio sul linguaggio giuridico del "foro di competenza" o su quello pubblicitario con "il Clementoni dei miei coglioni"). Risaltano quindi tutti i corpi di quei corsivi con cui si vestono parole che sono ormai comuni, quali "outfit", "trekker", "downgrade", "competitor", "escalation", "task", "pattern", "worldwide", "template", "work-life balance" (ma anche la voce dotta "hybris" o il calco dall'inglese della parola "customizzandolo"). Sono tutti fatti linguistici abbastanza noti a chiunque lavori in un'azienda, non necessariamente informatica, e persino nelle aziende dove si parla ancora prevalentemente il dialetto (lo "Snack bar Al canton" di Zanzotto, tanto per stare in tema, ma il bar in Targhetta si chiama "Incrocio" perché sta ad un incrocio). Questa facilità al corsivo, che inizialmente crea nel lettore uno strano effetto di pausa e ralenti, a momenti sovraccaricato, proviene dalla chiara volontà di evidenziare l'impatto del mutamento sul corpo della lingua ma soprattutto dice, specialmente alla rilettura del testo, di una distanza, innanzitutto linguistica, che il narratore instaura e rimarca con la materia intercettata. Questa presa di distanza linguistica dalla materia trattata, alternata a passaggi dove invece l'intimità tra pensiero e lingua è massima, mi è parsa una caratteristica saliente di questo lavoro, ciò che ne ha garantito anche un ritmo efficace. E così, nel giro di qualche pagina, e comunque assai spesso in questa storia, si avvicendano passaggi come questo
Il viaggio in aereo fu particolarmente tormentato: mentre sfogliava le carte sulle possibili proposte da presentare alla Messi (realizzazione e-commerce B2C su piattaforma SAP per la vendita diretta worldwide dei prodotti per il motociclismo. Personalizzazione template pagine prodotto. Sviluppo metodo importazione prodotti, immagini, listini. Tecnologie: Java, HTML5), pensava all’opportunità di applicare già il metodo Mariotto, e quindi di proporre ai francesi una collaborazione con una nuova azienda, più dinamica e sana della Albecom.
a brani che attaccano in questo modo e nei quali il nome di marca "Velux" appare lessicalizzato, quindi scritto in tondo e con la minuscola, per poi diventare il "lucernario"
Fuori l’oscurità era ormai totale. Ottobre si annunciava, soffiando dentro le case l’aria delle campagne appena violate dalle ultime vendemmie, un’aria succosa e rancida, che portava l’autunno traboccando, per un eccesso di stagionatura. GDL si abbassò, chiuse il velux e guardò negli occhi Veronica: «Scendo cinque minuti. Chiamo Mariotto. Mi aspetti qua?». E così lei salì in mansarda, si stese sul tappeto e si mise a guardare attraverso il lucernario la sagoma offuscata della luna.
Nel 2000, in un libro di racconti intitolato Un dolore riconoscente divenuto presto introvabile, Gian Mario Villalta scriveva che la "vita che ci aspetta è piena di tutto, è come vivere dappertutto, è troppo grande per riuscire a pensarla. La vita che ci aspetta è veloce, dovrà per forza sorprenderci continuamente". Con il libro di Francesco Targhetta siamo già ampiamente in "questa vita che ci aspetta", data dall'esasperazione del paradigma dell'accelerazione sociale, economica e individuale, nella vita piena di tutto: le mille possibilità, dai sentimenti al consumo, rimbalzano sulle esistenze affossando la pelle e i muscoli (per contro un tema solo sfiorato per contrasto da questo romanzo è quello gigante del vuoto). In questo libro le mille possibilità rimbalzano negli exempla che seguiamo quali fili principali della trama: il fondatore di Albecom, Alberto, ottimista, predestinato e problematico, il giovane rampante Giorgio (abbreviato GDL, il fondamentale presales dell'azienda) che ricorda Yuppies di Luca Barbarossa con i "giovani rampanti intraprendenti fanno passi da giganti nei debutti in società" e infine Luciano, figura timida e apparentemente inetta (qui il discorso potrebbe saldarsi a Svevo), esclusa soprattutto dalla vita dei sentimenti e legato al fondatore dell'azienda da molti anni. A un certo punto potrebbe diventare semplice per il lettore familiarizzare soprattutto con quest'ultimo, nel quale appare più immediata la risonanza tra la materia narrativa e la precedente materia poetica scritta da Targhetta. E se tanti, dopo Proust, si sono trovati a ricercare il tempo perduto, il caso di Luciano è un singolare esempio di persona che quasi non deve pensare a ricercare alcun tempo perduto, semplicemente perché a lui il tempo non è stato concesso, non l'ha avuto. Probabilmente Luciano, informatico atipico tra gli altri, al tempo ha concesso troppa e troppo piena fiducia che ora non ritorna indietro in nessuna forma (amore, soddisfazione, pienezza o gioia dell'abitare un pensiero). Gli è sfuggita, però, anche la divaricante verità dell'attimo. Luciano è un personaggio tra altri di quest'opera, è quello che porta da mangiare lo stracchino ai gatti, tuttavia è anche quello che più si sforza per non farsi "torturare" da un narratore che insegue, come in tutti i romanzi, i propri caratteri. Per questo motivo risulta anche più sfuggente, così come le donne, spesso umbratili in questo lavoro. Ma non ci sono solo nerd informatici timidi rampanti o ottimisti, ci sono anche i gruisti di Marghera in queste pagine nuove e, come si diceva una volta per certi film, la parte del gruista e le scene e le viste "potenziali" su e da Marghera valgono, anche da sole, il prezzo del biglietto.

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