venerdì 30 marzo 2018

"Bestia da latte" di Gian Mario Villalta

"Mi sono fatto l'idea che la maldicenza, la litigiosità, la cattiveria che regnavano in casa sua e in tutte le altre del paese non lo avessero mai intaccato. Gli ho sempre riconosciuto una pulizia interiore, una sincerità disarmante, anche quando, più avanti negli anni, quella sincerità diventò spesso un'arma per cercare di sedare le mie inquietudini. Non riusciva a capire che la sincerità e la verità non sono la stessa cosa, e che la sincerità di chi ha potere su di te appare come un'esibizione di forza, oltre che risultare a volte più dolorosa di un insulto." (Il protagonista del libro sta ricordando qui la figura paterna.) È un passo tra altri simili e altrettanto cruciali di Bestia da latte, nuovo "romanzo" di Gian Mario Villalta (SEM, pp. 160, euro 16), un libro finalmente disturbante. Qualcuno - librai compresi - lo fa passare come un'opera che, con buon tempismo, si cimenta sul bullismo, un bullismo tra le mura domestiche tra l'altro, ora che il bullismo è materia scolastica quotidiana (non più prettamente maschile e con varie declinazioni cyber). In realtà il bullismo può essere l'esca per far presa nelle redazioni dei giornali, il tema per gli uffici stampa e la promozione, poi bisogna vedere se i librai cercano il solito libro che non disturbi nessuno e che venda bene. Il libro di prosa più bello che Villalta ha scritto sin qui è però un nuovo affondo nell'universo imperscrutabile dell'infanzia e qualcuno dovrà registrare ormai che, soprattutto nella prosa, lo scrittore di Pordenone ha dalla sua una continuità, intimità e felicità di frequentazione con i temi e i tempi dell'infanzia che pochi altri autori hanno mostrato sin qui: narrativa dell'infanzia, non narrativa per l'infanzia.

Che cosa succede quando un uomo adulto, ripercorrendo la propria infanzia su una sollecitazione quasi casuale, arriva piano piano a capire di essere stato lasciato solo? Solo nella paura e nell'angoscia quotidiana causata da una violenza soverchiante, onnipervasiva e perpetrata con metodo e imprevedibilità da un cugino più grande, che viveva nella stessa casa, abbandonato dai genitori. Che cosa succede quando costui - il nostro narratore - capisce di aver avuto paura, davvero tanta paura? E che cos'è un'infanzia felice? Oppure, per ricordare un precedente libro di Villalta, che cosa succede alla fine di un'infanzia felice? Come si diventa adulti o come si aspetta di diventare adulti? Qual è il nostro rapporto con la responsabilità, con quello di cui ci sentiamo responsabili? Ad un certo punto il protagonista riconosce:
E ho scoperto una contraddizione che devo riconoscere e non smettere mai di affrontare: siamo consapevoli soltanto di una piccola parte di ciò che ci accade, mentre invece ci sentiamo per intero responsabili di noi stessi, anche di quello che è un destino, che cioè non dipende da noi e non possiamo modificare. E questa è per tutti una responsabilità troppo grande.
In un altro punto il narratore riconosce semplicemente ciò: "Non ero affatto trascurato, ero solo." Questo libro colloca le relazioni familiari e le loro altalene, i luoghi dei paesi di quello che si chiamava più volentieri Nordest finché tirava, gli attrezzi (finalmente un ingrassatore, caricato a mano e non con la spatola, fa la comparsa in un libro!) all'interno di un discorso ampio e problematico di memoria individuale e collettiva. Quando però un libro impagina quella realtà patriarcale, incastrata tra una società ancora prettamente agricola sorpresa e sconquassata dal boom, nel momento in cui tutto il mondo attorno letteralmente esplode, ecco che questo libro può arrivare a disturbare, ponendo quegli interrogativi che certa prosa mondata e sterilizzata ormai non sa più porre. E per restare al momento nodale in cui è ambientata la parte preponderante della vicenda narrata, non vi è controllo nello scoppio, non vi è previsione, sembra venir meno anche un patto col destino, per quanto lo scoppio stesso sia parte del destino. La patina mitologica del boom economico trova finalmente in queste pagine, almeno per quel che riguarda il versante orientale d'Italia, una rappresentazione più riuscita, efficace e in fin dei conti ben più utile della marea di cantilene che da decenni trasciniamo stancamente per narrare quell'esplosione economica e sociale collocata negli anni Sessanta.

Siamo nel momento delle prime industrie e dell'esplosione edilizia, delle nuove case in costruzione e del ricordo che lasciano quegli spazi ancora freschi di malta, della vita violenta e a suo modo comunque incantata di certe aree di Friuli o Veneto: qui si inserisce la narrazione, qui i molti interrogativi disseminati, qui un tentativo di rielaborazione tra altri possibili. E una parte di questo tentativo di rielaborazione può coincidere con il riconoscimento del momento in cui gli animali di casa, le "bestie", iniziano a essere divisi in due categorie, le "bestie da latte" e quelle "da carne", in un processo che spezza l'antico rituale di violenza e sacrificio tra uomo e animale e che porta a far puzzare le stalle di liquami fermentati: non c'è più tempo e spazio per la maturazione del letame, affinché questo assuma un odore quasi gradevole. Nello scenario contemporaneo, contraddistinto sovente da una prosa che giochicchia con la fascinazione per scenari rurali e selvaggi, la durezza di questo libro è un toccasana: la corona delle montagne friulane sta lì, rifulgente o ombrosa di notte. Eppure il padre del protagonista in montagna non ci va mai.

Restiamo al libro, con una digressione narratologica e di genere (letterario). In copertina si parla di "romanzo". Bene, siamo sereni: è un romanzo. Tutti salvi: editori e magari anche i librai. Tuttavia il patto che Villalta narratore costruisce con il proprio lettore - anche nel precedente Scuola di felicità (Mondadori, 2016), a ben ricordare - è quello di un narratore che sa che sta narrando una storia e che non si nasconde davanti a chi la legge. Il protagonista compie un'operazione sulla propria memoria e sta scrivendo queste pagine per il proprio figlio Leonardo, che subentra nella narrazione verso la fine, gettando a sua volta una ulteriore scia di interrogativi essenziali che si conficcano nella materia di penombra di cui sono fatti i nostri pensieri, su tutto quel passato che il lettore ha sino a quel punto conosciuto, per capi e sommi capi e su tutto quel presente dell'infanzia che emerge per contrasto, anche attraverso la materia dei sogni. Insomma, il narratore parla di "pagine" quasi a suggellare la consapevolezza di qualcosa che potrebbe assomigliare a un memoriale ma che memoriale non è e non è nemmeno "romanzo" (a proposito di "pagina", così dice l'epigrafe da Pitture nere su carta di Mario Benedetti: "Non so, dove e quando, casa / degli uomini e delle bestie, // del loro nulla, come / sia nostro mondo, da lastre // a bastoncelli, la nostra luce / nell'universo, e questa pagina"). Certo, si tratta di una storia e come nelle storie c'è una svolta, c'è persino una suspense nei momenti in cui si racconta di violenze crude e gratuite, oppure di gesti definitivi fortuitamente mancati. E il movente della narrazione è una madre anziana che, sentita spesso al telefono, nel presente in cui avviene la scrittura, sollecita il ricordo del narratore: è quella stessa madre che rientrerà più volte in una narrazione di una famiglia larga e popolata, nella quale si avvita e svita continuamente una triangolazione tra memoria, immaginazione e scrittura (perché questo è un libro scritto e la scrittura con le sue temperature è purtroppo così poco centrale nei traffici dei nostri discorsi sul romanzificio). Si tratta di un patto apparentemente più semplice di quello di un narratore che si nasconde. Diverse spie nel testo ci dicono di questa strategia discorsiva consapevole (il narratore sa di essere narratore): il narratore che sa e dice di essere narratore allarga e restringe lo sguardo sulla propria materia attraverso digressioni, prolessi, ellissi, divieti, sopralluoghi lirici.

In copertina, il particolare della scultura Patrick di Bruno Walpoth, chiude perfettamente il circuito con un testo nel quale il protagonista è chiamato Zhoca dal cugino violento. Zhoca è un epiteto dialettale diffuso nelle aree del Veneto e Friuli, rimanda appunto al ceppo di legno, ma è passato a significare, tra lo scherzoso e l'offensivo, "la testa", una testa poco prensile, ottusa, inadatta o persino inetta, testa da battipali insomma. Il narratore si preoccupa di fornire anche le istruzioni per la pronuncia, rifacendosi alla lingua spagnola. Non è l'unico punto in cui il dialetto appare nel libro e sarebbe il caso di spendere qualche parola di più su questo aspetto, ma ci fermiamo qui.

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