venerdì 16 febbraio 2018

"Un anno di scuola" di Giani Stuparich e la sorpresa della lingua

Il titolo circoscrive in un modo che parrebbe univoco, ma lascia intravedere e immaginare molto: un anno, con il suo ciclo di quattro stagioni, e lo scenario principale, con i fatidici atri e banchi di scuola. La vicenda, che s'avvia in una giornata ancora calda di settembre, è ambientata nell'anno scolastico 1909-10 a Trieste (forse non è un caso che l'anno rimandi al suicidio di Carlo Michelstaedter). In una classe di ottava ginnasio arriva per la prima volta una ragazza e, come si direbbe oggi in un gergo un po' sciapo, destabilizza un contesto che fino ad allora era stato lungamente maschile. Un anno di scuola di Giani Stuparich (Quodlibet, pp. 96, euro 13, a cura e con la postfazione di Giuseppe Sandrini) è il libro di questa ragazza catapultata in una classe. Lei si chiama Edda Marty e suona curioso il nome, così come suona curioso che il personaggio che potremmo pensare come alter ego dello scrittore si chiami Antero. Anche Giuseppe Sandrini si sofferma sui nomi ibseniani scelti da Stuparich e non bisognerebbe dimenticare l'interesse di questi scrittori triestini per Ibsen, vedi il caso lampante di Slataper ricordato qui. Il narratore insegue un gruppo di coetanei e i loro famigliari alle prese con l'ultimo anno prima del passaggio all'università. Sappiamo come quella generazione, già all'università, fece esperienze intellettuali significative. Stuparich insegue la traccia di un transito femminile tra venti allievi di sesso maschile e, manco a dirlo, i protagonisti si innamorano tutti di Edda, ognuno a suo modo. Del resto un evento sociale così raro e significativo è bastevole a muovere la trama di un racconto come questo. E quasi in anticipo su tanti programmi televisivi che seguiranno, Stuparich "porta" la classe agli esami. Tra le altre cose, va ricordato che esiste un film per la televisione tratto da questo libro pubblicato nel 1929 e lo girò Franco Giraldi nel 1977 per la Rai. Il libro di Quodlibet quindi pare celebrare quella ricorrenza, anche se si inserisce in un percorso di riproposta delle opere di Stuparich, tra cui Guerra del '15.

Torniamo sulla centratura del titolo, che mostra in modo netto la cornice temporale secca e nitida, destinata però a vibrare come sempre vibrano certi periodi fondamentali, quelli che per alcuni possono davvero coincidere con i migliori anni della nostra vita, per altri meno. E dà da riflettere il fatto che Stuparich, classe 1891, volontario sul Carso assieme al fratello e a Scipio Slataper, scrisse questo libro soltanto nel 1929, in un cono di luce di lunga retrospezione quindi, con la strage bellica di mezzo e con tutto ciò che aveva comportato anche nella perdita degli affetti più stretti (il fratello morto suicida sul Monte Cengio nel maggio del 1916, Slataper che se n'era andato sul Monte Calvario già nel dicembre del 1915). La situazione retrospettiva è frequente in quegli anni, basti pensare anche al caso paradigmatico di Lussu e del suo Un anno sull'altipiano. Scrivere però su un periodo antecedente alla Prima guerra mondiale, a una decina d'anni dal termine di quella guerra, è un fatto degno di attenzione: c'è di mezzo il tentativo sofferto di una rielaborazione, non sempre possibile, eppure tentata e ritentata, in un momento in cui Stuparich si trova dall'altra parte a insegnare. Assente è il "senno del poi", così come è assente un "sentore del prima". Semmai, nella storia di questi ragazzi e di questa ragazza che getta nello scompiglio una piccola comunità con il suo modo di essere, si possono ritrovare certi pensieri di un'epoca, si possono fare delle congetture e verifiche su cosa e come pensassero gli uomini e le generazioni di quel mondo versicolore (eppure così cupo) che stava al confine dell'impero negli anni in cui il mondo si affacciava sul baratro della disintegrazione di massa. E soprattutto, va almeno accennato in chiusura, c'è una lingua sorprendentemente chiara, prensile, viva, persino più contemporanea di quella di certi narratori degli anni Duemila (in un dialogo la sorprendente battuta "Il diavolo v'ha spermatizzato il cervello."). Per questo grumo di motivi i libri di Giani Stuparich continuano ad arrivare per rotte invisibili ma sicure al nostro orecchio, mentre seguiamo uno scrittore che sa come trapassare nella scrittura una stagione della vita che, nel momento in cui scrive, è già finita da un pezzo.

Nessun commento:

Posta un commento