martedì 16 gennaio 2018

"L'isola senza memoria": Gian Mario Villalta, Ligio Zanini, Goli Otok e il senso della testimonianza tardiva

Goli Otok ("l'Isola Calva") si trova poco distante dalla costa croata, dalla quale è separata dal Canale della Morlacca. Il toponimo deriva dal peculiare aspetto del terreno che culmina coi 227 metri del Monte Glavina, una superficie appunto pelata, sferzata dai venti, dal sole e mangiata dalla salsedine. Dal 1949 al 1956, in seguito alla rottura tra Russia e Jugoslavia, l'isola divenne un campo di rieducazione per i dissidenti individuati dal regime del Maresciallo Tito e fino al 1988 rimase una colonia penale. Esiste un libro di Giacomo Scotti pubblicato da Lint Editoriale e intitolato Il gulag in mezzo al mare. Nuove rivelazioni su Goli Otok che rappresenta il passaggio obbligato per chi desidera approfondire le vicende di questa ennesima realtà concentrazionaria del Novecento, rimasta a lungo lontana dai circuiti della memoria e nella quale si creò un peculiare sistema di terrore. Qui infatti i prigionieri diventavano i primi aguzzini, innescando in tal modo lo sgretolamento di qualsiasi possibile solidarietà umana e gonfiando una bolla di solitudine nei reduci, che ritornavano a vivere in un mondo in cui non vi era più nessuno che li abitasse o che stesse nella memoria che erano/avevano. Di diversa natura rispetto a quello di Scotti è il libro scaturito dalla "piccola ossessione" che sospinge Gian Mario Villalta verso Goli Otok ne L'isola senza memoria (Laterza, pp. 120, euro 14), un libro che in realtà si potrebbe leggere anche come un lungo inseguimento di un viaggio mancato, proprio su quest'isola.

Siamo di fronte a uno scritto difficilmente catalogabile, come altri della vivace collana "Solaris", e si può dire che soprattutto con i libri di Giorgio Falco, Guido Mazzoni e Daniele Giglioli usciti in questa stessa collana il libro di Villalta sembra dialogare (il fatto va registrato anche come merito dell'editore, che ha progettato la serie di titoli e la sta via via alimentando). Il dialogo pare attivo anche con il recente La città interiore di Mauro Covacich. Troviamo pagine oscillanti in quella zona della (auto)biografia necessaria, eppure sempre minacciata dai rischi mistificatori che nascono dall'accumulo del tempo sul soggetto, dai pericoli di uno sfaldamento della narrazione imposto dal protrarsi indefinito del tempo della maturità del soggetto stesso, sul quale oggigiorno sembra scaricato tutto il peso di un destino (che è spesso, tra l'altro, un destino incompiuto); i serrati capitoli virano quindi verso la riflessione poetica e filosofica sulla testimonianza e la necessità di esprimere un giudizio su un presente che appare, nell'epoca del commento facile, sempre più recalcitrante a farsi giudicare e che pure, alla fine, è invece così bisognoso di un nostro giudizio. 

Il libro arriva in un momento dell'anno in cui le librerie, i mezzi di informazione e le scuole di ogni ordine e grado si ingolfano di libri pubblicati in vista della Giornata della Memoria o di progetti imbastiti spesso all'insegna di una retorica che non sposta di una virgola verso riflessioni più attive e prensili gli attori e i destinatari delle operazioni: triste a dirsi, ma quello della Giornata della Memoria rischia di trasformarsi in un ennesimo tetro esercizio della burocrazia se non corriamo ai ripari (e in questo senso L'isola senza memoria pare voglia suonare una sveglia). Nonostante il titolo allora quasi provocatorio, il libro di Villalta non è controprogrammazione editoriale rispetto alla Giornata della Memoria. Semmai ci spinge a interrogarci sul senso della testimonianza (soprattutto di quella tardiva e "fuori tempo massimo"), sullo strano senso di colpa che grava sui testimoni (a partire anche da quanto racconta in Tutto scorre... Vasilij Grossman), sulla memoria che abbiamo e siamo (nel nostro corpo), su una certa inanità della commemorazione (o, peggio, rievocazione) comunemente intesa. Ci porta poi a chiederci quale ciclo di memoria abbia installato sulle nostre teste il tempo presente della comunicazione immediata e digitale. Le pagine di cui è composto dialogano apertamente con le grandi riflessioni in atto sulla sopravvivenza, sull'essere reduci, sull'ambiguità della parola e sul valore del giudizio e della testimonianza:
Se nel tempo in cui l'accesso alla parola pubblica è diretto e istantaneo si perde il tempo della testimonianza, non perché, come per Goli Otok, avviene fuori tempo massimo, ma perché ogni parola cancella la precedente in un susseguirsi di nuovi scenari senza memoria, dove si crea lo spazio per la responsabilità?
Il punto di partenza di questo scritto cresciuto e riveduto negli anni è l'incontro del 1990 fra Villalta, all'epoca trentenne, e il poeta istriano Ligio Zanini, reduce di Goli Otok. Il pretesto è un viaggio a Rovigno che vede Villalta accompagnare il poeta Amedeo Giacomini, con l'intento di farsi consegnare da Zanini alcune poesie per una rivista. Di lì incomincia la "piccola ossessione" per quel pezzo di terra circondata dal mare, lo sfasamento che scocca notando il contrasto tra certe pagine "ripulite" di Zanini (comprese quelle dell'autobiografia Martin Muma) e la voce e i gesti del testimone incarnati nella sua vita di poi. Il breve libro alterna percorsi autobiografici alla fatica di avvicinamento all'isola e si inserisce nel solco di quell'analisi che raduna, senza ricercare una facile conciliazione, il portato della riflessione individuale con la portata degli avvenimenti storici accaduti vicino a noi e dei quali poco o nulla si è saputo per molti anni (i sopravvissuti di Goli Otok erano controllati a distanza anche dopo la liberazione e venivano rilasciati soltanto dopo aver recuperato il peso perso e un discreto aspetto fisico). In realtà, sembra suggerire l'autore, sappiamo ben poco di tutto, ma questo è un altro discorso che ci porterebbe fuori traccia.

La tenuta del testo si misura anche a distanza di pagine. Se all'inizio, ripercorrendo gli anni dell'infanzia, Villalta ricorda incidentalmente che a casa non si produceva un grammo di immondizia, è anche perché nel finale si apre alla riflessione sul disastro ecologico che l'uomo della seconda metà del secolo scorso - l'uomo forse troppo imbrigliato, che più interessa all'autore - ha innescato con un passo che pare irreversibile. Sono i grandi avvenimenti negativi quelli per cui gli uomini del dopoguerra verranno ricordati. E non c'entra qui la nostalgia per anni più salubri, c'entra sempre semmai il modo in cui si diventa quello che si è, come si portano gli altri e un tempo tramontato dentro un nuovo orizzonte e come tutto ciò si trasforma nella vita che ci resta da vivere e che ci vede sempre troppo impacciati e incapaci di una vera rielaborazione del vissuto. Di qui partono alcune domande essenziali, come quella che ci chiede se davvero ambiamo a essere ricordati per qualcosa. Va detto che tutto il libro impagina molti dei temi che da tempo interessano da vicino lo scrittore friulano, in prosa come in poesia, finanche il controverso concetto di "patria" (del quale su queste pagine si è già scritto ricordando l'opera dello storico Silvio Lanaro). La continua sovrapposizione di ricordi famigliari e avvenimenti storici che si dipana per tutti i capitoli è funzionale a condurre il lettore verso le domande cruciali, sulle quali torneremo a breve in chiusura e che partono da e forse tornano a Goli Otok. 


Nel capitolo quarto Villalta instaura una felice considerazione sull'autobiografia sulla scia delle revisioni della Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso per arrivare a chiedere, dopo aver istituito un parallelo tra coscienza individuale e coscienza storica, entro quale distanza di tempo si può ancora giudicare attivamente la storia. Nel sesto capitolo invece è protagonista Paul Celan, con la sua volontà di non essere un testimone che ricorre a una "lingua illustrata" e a una retorica dell'orrore. Per Celan è invece primario portare a termine un pieno accoglimento dell'orrore vissuto all'interno di una lingua, di una cultura e una vita che abitino pienamente il presente, che continuino a diventare il presente che condividiamo con altri. Sono soltanto due esemplificazioni dei percorsi che compie questo libro per tenere il filo di un discorso che a ogni passo potrebbe imboccare mille strade. In controluce, anche se è citato solo una volta nel testo, si percepisce la presenza della poesia come storiografia di Andrea Zanzotto.

Come si sarà intuito, pur nella brevità, L'isola senza memoria è un libro assai denso, che si pone continuamente in dialogo con le prepotenti istanze della contemporaneità e le pressioni del passato che l'ha creata, con la falsa coscienza sempre in agguato nelle manipolazioni del nostro "sé autobiografico", il quale procede e s'installa affianco alle più grandi narrazioni della storia. La traccia che attraversa queste pagine è una radicale presa di posizione su una riflessione che è mancata nel dopoguerra. Villalta osserva infatti che è come se nel dopoguerra si fosse arrestata ogni possibile riflessione autentica sul senso di esperienze che hanno annunciato e costellato gli orrori riconducenti proprio al secondo conflitto mondiale. Nelle generazioni successive, in quelli che oggi hanno sessanta, cinquanta o quarant'anni, è come mancata una rielaborazione che andasse oltre i totalizzanti paradigmi dell'eroe e della vittima, i quali ci hanno immobilizzati ad attingere acqua per un immaginario e una nuova trama da un pozzo in realtà già secco. La domanda principale allora mi sembra quella con cui si chiude il capitolo decimo:
C'è, mi chiedo dunque, una narrazione che si radichi nella vita sociale e civile più recente e che possa prescindere dalle immagini e dalle testimonianze dell'orrore annuncianti e conseguenti la seconda guerra mondiale, su cui fondare il senso di un'esistenza? Il fatto stesso che siamo ancora legati a queste oramai davvero troppo tardive testimonianze per richiamare i valori del nostro presente, non è un sintomo che ci dovrebbe preoccupare?
Sta qui il nucleo della riflessione che intreccia in modo avvincente Goli Otok, Ligio Zanini, Gian Mario Villalta e gli ultimi settant'anni. Nascosto nel timore che sia ormai troppo tardi per giungere a una rielaborazione del nostro vissuto alla luce di paradigmi nuovi, c'è anche, più pressante, l'invito a fare presto, a intervenire con urgenza per capire quale narrazione possa avere senso nel presente e nel gesto di vita con il quale lo popoliamo. Qualcuno potrebbe gridare allo scandalo, a un velato richiamo a quelle narrazioni e metanarrazioni che erano le ideologie che sappiamo (forse) crollate. In realtà, istituendo un peculiare parallelo tra coscienza individuale e coscienza storica, tra autobiografia e storiografia, Villalta ha posto più che altro delle domande sull'essenza della memoria alle quali nessuno può più sottrarsi e ha lasciato cadere tra le pagine delle considerazioni che riguardano il lavoro e lavorio della memoria su di noi e quello nostro sulla memoria. Ci dice che è diventato quasi impossibile tramandare dei contenuti e che soltanto le forme possono ancora essere trasmesse tra generazioni. Siamo dunque ancora in tempo per compiere una rielaborazione che, partendo da certe esperienze e testimonianze cruciali, ci conduca a capire come queste abbiano agito nella nostra vita/memoria trasformandola? Il periodo buono per provare a rispondere è tutto l'anno, non soltanto le settimane antecedenti alla Giornata della Memoria.

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