venerdì 29 dicembre 2017

"Amedeo Modigliani e altri scritti" di Anna Achmatova

Nella bella collana "Testi e documenti" di SE torna reperibile Amedeo Modigliani e altri scritti di Anna Achmatova (a cura di Eridano Bazzarelli, pp. 176, euro 20), un libro che era finito nel mare dell'irreperibilità. Il volume raduna alcuni scritti della scrittrice russa, tra cui quello che presta il titolo al volume, pagine che segnano anche il passo complessivo della pubblicazione incentrata soprattutto su testimonianze e memoriali brevi. Tuttavia, come vedremo in chiusura, è forse negli scritti lontani dalla memorialistica che Achmatova ha lasciato le pagine più gravide di conseguenze, anche per il lettore di oggi. Come spesso accade con i libri di questo editore, ricca è l'appendice iconografica che si apre con la celebre foto di profilo dell'autrice e si chiude con la foto del suo funerale, nella quale Iosif Brodskij osserva la salma con una mano appoggiata alla guancia. Sarebbe utile aprire una piccola parentesi sui volumi di questa collana, che tanto spesso risultano irrinunciabili quanto ancora più spesso scappano da qualsiasi radar di recensioni, critica o discussione, forse perché slegati da qualsivoglia logica di contingenza, di promozione forzata e di tempi strettissimi che si danno a un libro per sopravvivere. Per certi aspetti non è esagerato vedere certi libri come delle meteore che compaiono e si prendono-acquistano al volo (anche a costo di non leggerli subito) per poi scomparire lesti nel dimenticatoio. Il punto però non è dimenticare i libri o preoccuparsi per i dati ISTAT sulla lettura (per quello che mi riguarda, comprendo benissimo le ragioni di chi dice di non leggere o di non essere interessato alla lettura, tanto quanto capisco e ascolto gli entusiasmi di chi mi consiglia un dato titolo).

Chi avvicinerà questo volume allora troverà il già citato scritto su Modigliani carico d'affetto, i fogli d'album su Mandel'štam, i ricordi di Lozinskij e Aleksandr Blok, una breve nota sui versi di una quasi dimenticata Nadežda L'vova, scritta in occasione della morte precoce della scrittrice di poesie, e ben quattro contributi su Puškin, tra i quali analisi approfondite della Fiaba del galletto d'oro e dell'influenza dell'Adolphe di Benjamin Constant nell'opera dello scrittore russo. Soprattutto quest'ultimo, nel quale la concentrazione critica di Achmatova è massima e il lato memorialistico passa in secondo piano, rappresenta per il lettore d'oggi il momento di maggiore interesse del volume. Il senso di un'espressione accademica come "letterature comparate" acquista qua forza e necessità e si palesa in un nuovo ventaglio di possibilità. Insomma, volendo azzardare un consiglio, si tratta di un libro e soprattutto di un saggio dedicato a tutti i comparatisti. Qui è da ascoltare Bazzarelli che chiude la sua nota definendolo un modello "per cui si può accettare la comparazione come uno dei metodi fondamentali per capire il fatto letterario".

sabato 23 dicembre 2017

"Glitchine" di Luca Rizzatello, capitolo 3. A TomTom Heart Mother


Glitchine è la copertina vincitrice del contest VIVERE SENZA POESIA - FASE 2: UN LIBRO SI AGGIUDICA DALLA COPERTINA, organizzato da Luca Rizzatello nel luglio scorso:

Dopo 103 copertine, è tempo di scrivere almeno un libro. Ma quale? Ho pensato di aprire le votazioni, e di scrivere il libro che riceverà più voti. Direi di fare così: se vuoi, scrivi nei commenti qui sotto il titolo della copertina che preferisci, e tra una settimana (quindi mercoledì 26 luglio 2017) si vedranno i risultati. In caso di risultati a pari merito, si andrà al ballottaggio. Il libro verrà pubblicato a puntate su Librobreve. 


In quinta elementare, mentre mi spendevo nell’imitazione di Vittorio Sgarbi per la festa di fine anno nel giardino dell’istituto – sebbene nel capitolo due avessi ammesso di essermi evoluto dallo stadio bagaglino a quello di apprendista stand-up comedian, ci ero ricaduto; dopo accurate valutazioni, decisi che non era il miglior momento storico per salire sul palco con un dolcevita nero e dire a un pubblico di sei-diecenni + parenti ho una battuta in Serbo per voi –, Lorena Leonor Gallo stava tagliando con un coltello da cucina il pene del marito John Wayne Bobbitt; se l’episodio fosse accaduto con qualche giorno di anticipo, sono certo che anche i coniugi Bobbitt avrebbero meritato un posto nella recita scolastica insieme al succitato Sgarbi, a Bruno Vespa, a Chelsea Clinton e a uno sceicco del quale ho un ricordo piuttosto vago. 
In un articolo su Linkedin del 2015 Donald Norman ci dice che se gli incidenti automobilistici fossero percepiti come una malattia che uccide ogni anno un milione di persone e ne rende invalide dai 20 ai 50 milioni, verrebbero presi provvedimenti per controllare l’epidemia, così la sua proposta è di velocizzare il processo di automazione dei veicoli, essendo ormai troppe le distrazioni per gli automobilisti. 
Durante la benedizione della casa, il parroco di CdR mi chiese se avessi mai pensato di entrare in seminario, perché secondo lui ero portato. Io lì per lì non dissi niente, ricordandomi di quando un padre salesiano mi raccontò una storia edificante che vedeva come protagonisti la madre di un giovane e un prete; il quale, in un colloquio con la donna, la invitava a mandare il figlio in seminario. Non ricordo se fosse volontà del giovane entrare in seminario e il prete stesse intercedendo per lui, oppure se il prete stesse facendo di testa sua, fatto sta che la risposta della madre fu una cosa come piuttosto morto. La storia finisce proprio come stai pensando. 
Se incrocio questi due pensieri, ne emerge un terzo, che mi vede alla fermata del 38 in via Saffi a Bologna, per andare a lavorare in libreria. Sulla facciata della chiesa di fronte era appeso uno striscione recante la scritta fate quello che vi dirà. Questa frase la dice Maria alle maestranze, nel Vangelo di Giovanni, perché è andata a un matrimonio, e siccome hanno finito il vino, va da Gesù, pure lui invitato, per spiegarli l’inconveniente; Gesù lì per lì prende le distanze, la chiama addirittura donna – a chi non è successo che tua madre da Sisley insista oltremisura per comprarti quella camicia ocra – ma poi il miracolo lo fa, e quello è il suo primo miracolo eccetera, proprio come quando sei mesi dopo l’ocra torna di moda e tutti ti fanno i complimenti, e tua madre non la ringrazi. 
Qualche giorno dopo sarei partito per il campo estivo a Sappada, consapevole che l’angelo della morte mi avrebbe potuto stanare anche lì. Alcune proiezioni: il volo della corriera dal viadotto, il morso di vipera durante l’escursione, l’albergo in fiamme; invece no. Al posto dello Sterminatore, l’autunno mi portò la cassettina duplicata di Hit Mania Dance, e l’ansia per la prima media.


(Qui tutti i capitoli di Glitchine.)

giovedì 21 dicembre 2017

I cambi di stagione: solstizio d'inverno


In occasione di solstizi o equinozi, quindi al massimo quattro volte l'anno, riprendo qui un testo dagli archivi. Specifico solo il caso dei testi editi. Le immagini che accompagnano questi post sono tagli e rotazioni (di 90°, 180° o 270°) dalle tavole


Inverno 2013-14 (L’ippocampo)




Pare inverno con la neve
alta su tanta terra.
Le scuole chiuse in America,
motori accesi ventiquattro ore.
E pure certe temperature…
e io, io sprofondo su questo.

Qui s’inventa una pioggia calda
sul gregge, i muli e sull’impermeabile
giallo del pastore che chiude.
Guardiamo intanto i rami dei fiumi
marroni. Ci sono ancora
le isole di ghiaia al centro
e qualche pulcino finito
sul cemento si disperde.
Ripenso che avevi ragione a dirmi
prima di nascere tu eri
un cavalluccio marino.
Avevi proprio ragione a dire.

Lo sappiamo che è una tenera
imitazione della vita tutto questo, 
un regesto presto scorso o dimenticato.

martedì 19 dicembre 2017

"Quel Carso felice" di Srečko Kosovel. Uno scritto di Michele Obit e la traduzione di tre poesie

Transalpina Editrice ha da poco pubblicato Quel Carso felice, una raccolta di 40 poesie del poeta sloveno Srečko Kosovel (Sesana, 18 marzo 1904 – Tomadio, 27 maggio 1926). Il volume è curato da Michele Obit, autore anche delle traduzioni. Di seguito potete leggere un suo breve saggio e tre poesie tradotte.

«Attraverso la finestra vedo la strada, una bella strada grigio argento, luccicante nel sole autunnale. Di fronte c’è un muro, dietro il muro un ciliegio, dietro il ciliegio un pergolato, dietro il pergolato un campo, dietro il campo una landa, dietro la landa dei pini, dietro i pini le colline.
Questo vedo attraverso la finestra. E sotto la finestra scorre la strada e per essa la vita. Silenziosa si riversa da chi lo sa quanti anni per queste valli, ancor prima ci fosse questa strada, ancor prima ci fosse questa finestra, ancor prima ci fosse questo uomo che osserva e pensa.»
Noi lo immaginiamo, Srečko Kosovel, mentre attraverso le sue lenti sottili si immerge in quel paesaggio che non è cambiato poi tanto da allora — sono passati quasi cent’anni —, solo la strada è oggi asfaltata, ma non mancano i muretti ed i ciliegi, e la vita contadina qui non si è ancora arresa allo strapotere delle industrie e dei centri commerciali. Qui è Tomaj, oggi poco più di trecento abitanti, sull’altopiano carsico sloveno, nel comune di Sežana. La casa dove Kosovel ha vissuto gli ultimi anni della sua troppo breve vita, e da cui osservava quel paesaggio così mirabilmente descritto, esiste ancora, ed è diventata una casa-museo che offre ai visitatori oggetti, libri e sensazioni di quella che è stata una vita breve e intensa, sofferta e poetica.
Srečko nasce il 18 marzo 1904 a Sežana, ultimo di cinque figli. Il padre, Anton, di origine contadina, è prima maestro e poi direttore della scuola elementare del paese. È appassionato di musica e dirige un coro. La madre, Katarina Stres, originaria di Sužid presso Kobarid (Caporetto), è stata dama di compagnia di una nobile famiglia triestina. Srečko è il più giovane di cinque figli, il beniamino della famiglia. Più del fratello Stano e delle sorelle Karmela, Anica e Antonija avverte, allo scoppio della Prima guerra mondiale, lo strappo da un'infanzia serena, vissuta in un ambiente armonioso e denso di attività culturali, anche all'interno della stessa famiglia Kosovel. Famiglia che nel frattempo si è trasferita a Tomaj.
Nel 1916 Srečko si iscrive alle scuole superiori di Lubiana, dove è costretto a vivere in misere condizioni, in austere camere d’ affitto condivise con i compagni dei corsi. Gli anni di Lubiana sono caratterizzati dall’intenso studio e da una vita ascetica, che però non gli precludono la partecipazione alla vita culturale della città. Ma sono anche, e forse soprattutto, gli anni in cui nell’animo del poeta trova forma quel sentimento che gli sloveni usano indicare con la parola hrepenenje, termine che si potrebbe tradurre con desidero, anelito, ansia, non fosse che contiene qualcosa di nostalgico, il rimpianto per ciò che non è accaduto e tanto meno accadrà. Questa è la brama che Kosovel prova per il suo Carso, per un paio di anni raggiunto solo durante le vacanze scolastiche, poi, conclusa la guerra, ancora più lontano: un confine lo separa dalla sua casa e dai familiari. Da una parte il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, riconosciuto dalla Conferenza di pace di Parigi nel 1919 (per Kosovel, come scrive in una lettera a Dragan Šanda, poeta e professore di francese, la condizione degli sloveni è quella di chi si sente «sotto i tacchi dello jugoslavismo»), dall’altra l’Italia fascista, che perquisisce l’abitazione familiare perché il padre non vuole iscriversi al partito.
Il Carso, comunque, resta la ‘casa’. Ha scritto mirabilmente Boris Pahor, raccontando un poeta da lui molto amato e consentendo a noi di avvicinarci alla sua prima fase poetica, quella impressionista, quella dedicata alla nostalgia dei momenti felici: «Non è affatto strano che il giovane, innamorato della sua terra, senta confondersi nel suo essere un mare di energia, oppure provi l'impulso di inginocchiarsi davanti all’infuocata solennità dell’altro solare, andando poi per il Carso come un re, pieno di nuova vitalità.».
Kosovel trasforma questa vitalità in poesia. Lo fa cogliendo, del paesaggio impressionista, di ciò che osserva dalla finestra della casa di Tomaj — quel paesaggio così diverso dalla grigia coltre nebbiosa e dalla severità dei palazzi austroungarici di Lubiana — soprattutto alcuni aspetti: l’influenza della bora, la presenza dei frutti che di stagione in stagione colorano i campi, il profumo dei pini, alberi che paiono sentinelle, mentre il poeta e la sua gente sono colti dal turbamento dovuto alla presenza di un'autorità straniera. Così in Pesem s Krasa (Canto dal Carso) cogliamo un aspetto, un piccolo quadro del paesaggio carsico: peculiari sono, per la zona di Tomaj, due boschi di pino, uno a sud e l'altro a sud-ovest del villaggio, che fanno da contrasto alla landa carsica che si estende tra essi. I pini, alberi scuri odoranti di resina, il poeta li assume come fossero parte di sé, e così facendo li anima. In Vas za bori (Il paese dietro ai pini) comincia ad insinuarsi un cambiamento, pur se tutt'altro che brusco, verso l' espressionismo, con l'uso di nuove metafore: le braccia degli alberi, il villaggio come un uccello, stretto nell’abbraccio dei pini. In Balada (Ballata) è descritta con versi brevissimi la tragedia dell’uccisione di una cesena, forse testimonianza di una sciagura di ben altre dimensioni di cui il poeta è di certo consapevole. E ancora in Premišljevanje (Riflessione) all’immagine del paese carsico silente si aggiunge la nostalgia per il focolare di casa, l’impossibilità di un veloce ritorno tra le mura domestiche. Fino ad arrivare a Pesem s Krasa (Canto carsico) dove solo la solitudine del poeta toglie per un attimo splendore ad un paesaggio nel quale è possibile non solo vivere, ma anche combattere ed essere giovane e sano.
(...)

Michele Obit


Tre poesie da Srečko Kosovel, Quel Carso felice, Transalpina Editrice.


Strada dei solitari


Appoggiato alla finestra osservo
i castagni dondolare lievemente,
un vento tenue vi è rimasto
impigliato, come un sogno inconsistente...

Ah, le nuvole così se ne sono andate
in uno sfavillio dorato, un lucore
e solo io qui son rimasto
in questo luogo senza rumore.

Come farfalle hanno volato,
vedo ancora delle ali il bianco luccichio,
sono rimasto solo, tutto solo.
Dove andare, qual proposito fare mio?


Cesta samotnih


Na oknu slonim in gledam
mehkó zibajoče se kostanje,
rahel veter se je ujel
vanje, rahel kot sanje...

Ah, odplavali so oblaki
v zlatem blestenju, v zlatem sijaju
in samo jaz sem tu ostal
v tihem tem kraju.

Kakor metulji odplavali so,
še vidim belo blestenje njih kril,
sam sem ostal, sam, čisto sam.
Kam in kod, kje mi je cilj?



Viaggio


Qui e là. Solo un breve viaggio.
L’albero, la torre. E la casa. Un monte. Un versante.
Come una fredda malinconia. Come sogni silenziosi.
Te ne vai. Un palpito stanco e pesante.

La stazione. Il ristorante. E le foglie
che dai castagni cadono sulla tavola imbandita.
E quella signora. Silenziosa e sola.
Lo sguardo. Le foglie brune. Un’impressione sbiadita.

Terra straniera: come l’autunno e la sconosciuta
tutta fuggevole, fredda. Qui da noi c’è tepore.
Le foglie svolazzanti. Verso le Caravanche.
Un tunnel: brilla il suo occhio nel tenue chiarore.


Potovanje


In tu in tam. Le bežno potovanje.
Drevo in stolp. In hiša. Gora. Hrib.
Kot žalost mrzla. Kakor tihe sanje.
Odhajaš. Truden in težak utrip.

Postaja. Restavracija. In listje
se siplje raz kostanje preko miz.
In tista dama. Tiha je in sama.
Pogled. Rjavo listje. Bežen vtis.

Tujina: kot jesen in kot neznanka
vsa bežna, mrzla. Tu pri nas topló.
Leteče listje. Proti Karavankam.
Tunel: v poltemi sije nje oko.



Alla stazione provinciale


Sull’ottone (rotelle dorate,
dentellate e lisce, tasti ossuti)
luccica il sole
come avesse gli occhi socchiusi.
Qui e là la rotella si solleva –
un accordo lontano si è desto,
l’impiegato scioglie il nastro –
ogni giorno la stessa chiamata...
Monotoni passi, chiusi nell’atmosfera
da ufficio – due binari vanno al mondo,
attraverso la finestra – la desolazione del Carso,
pini e ginepri, acacie, fiori selvatici –
quattro treni al giorno. – –
Un suono. Da sopra i pugni
ha sollevato le guance
destandosi dai mesti sogni.


Na provincialni postaji


Na medenini (zlata kolesca,
zobata in gladka, tipke koščene)
sonce blešči
kakor s polzaprtimi očmi.
Tu in tam vstane kolesce –
daljen akord se je zbudil,
uradnik odveže trak –
vsak dan enak poziv ...
Monotoni koraki, v pisarniški vzduh
zaprti – dva tira v svet,
skozi okna – puščava Krasa,
brinje in bori, akacije, divje rože –
štirje vlaki na dan. – –
Pozvonilo je. Iznad pesti
je dvignil lice
in vstal iz žalostnih sanj.


(traduzioni dallo sloveno di Michele Obit)

lunedì 18 dicembre 2017

"L'alcol e la nostalgia" di Mathias Enard

Fiumi di inchiostro, sia da parte dei romanzieri che della critica, si sono versati sui cosiddetti triangoli amorosi, come se la perfetta geometria, quantomeno ai fini narratologici, prevedesse soltanto tre vertici e tre lati, con una somma degli angoli interni costante di 180°. E non fa eccezione nemmeno la bandella di copertina di questo recente breve libro di Mathias Enard intitolato L'alcol e la nostalgia, adattamento di una fiction radiofonica, proposto da edizioni e/o nella traduzione di Yasmina Mélaouah (pp. 120, 12 euro). Tale bandella parla appunto di un triangolo amoroso fra i tre protagonisti Jeanne, Vladimir e Mathias, l'io narrante. Eppure questo libro dell'autore di Zona e Bussola (opere più note, corpose e forse meno prescindibili di questa) trova in considerazioni attigue la principale ragione del suo interesse: in queste pagine Enard fa vacillare il vecchio concetto di triangolo amoroso per traslare la narrazione su un più efficace e forse veritiero congegno a matrioska, dove l'amore che lega i tre personaggi-amici è dato uno nell'altro e nel quale la donna è colei con il volume più grande che tutto contiene. Parlare di matrioska ci ricongiunge all'ambientazione prettamente russa delle scene e del viaggio che costituisce la spina dorsale della narrazione. L'alcol e la nostalgia è un libro che abbraccia in realtà l'Eurasia, da Lisbona a Vladivostok, ma è senza dubbio la Russia, con Mosca e la Transiberiana, l'anfiteatro prominente, sebbene Parigi costituisca un ulteriore perno. Enard con quest'opera più smilza sembra così disporre un'altra tessera della cartografia che sta via via componendo con la propria bibliografia.

L'epigrafe cechoviana è utile (si potrebbe aprire una lunga parentesi sulla sovrabbondanza e l'efficacia delle epigrafi). Il passo recita: "Esagerate, caro signore. O meglio vi sbagliate. Per quanto possiate cercare, non troverete niente. La famosa anima russa non esiste. Le uniche cose tangibili sono l'alcol, la nostalgia e la passione per le corse dei cavalli. Nient'altro, ve lo assicuro. " È una vera epigrafe, che oltre a introdurre il titolo, funziona come autentica soglia. La vicenda è abbastanza triste, si potrebbe dire struggente, segnata da alcol, droga e altre tecniche d'alterazione. Ciò che dal principio muove la storia è una telefonata di Jeanne che avvisa Mathias della morte di Vladimir. Mathias si mette in viaggio con l'intento di accompagnare le spoglie dell'amico al suo paese natale in un percorso dentro la Siberia, oltre Novosibirsk. Vladimir morto diventa così il destinatario del racconto, del ricordo, delle nuove descrizioni. I paesaggi attraversati lasciano spesso spazio a passaggi metaletterari e la letteratura russa è il quarto protagonista. È questo un ennesimo libro che cammina sul filo che lega amore e morte, ma anche su quel vecchio sogno di essere compresi. Un sogno di cui forse parliamo poco, e che pure popola le nostre giornate e stagioni più di quanto siamo disposti a riconoscere, determinando spesso le nostre planimetrie esistenziali.

venerdì 15 dicembre 2017

"Buste di poesia" di Emily Dickinson: le "envelope poems" e un rinvio a interrogarsi sull'atto di pubblicare

Con il senso della parsimonia (e dell'ecologia) di un'abitante del New England, Emily Dickinson vergava ritagli e lembi di buste che sono state preservate. Le minute, assieme alle trascrizioni e alle traduzioni, si trovano ora anche nel volume Buste di poesia pubblicato da Archinto, nostro editore epistolare (pp. 120, 25 euro). Nadia Fusini ha curato e introdotto l'edizione di quello che sostanzialmente è Envelope Poems, libro editato da Marta Werner e dall'artista visiva Jen Bervin, il quale si rifà a The Gorgeous Nothings, un volume montato su quello che ci consegna l'archivio dei manoscritti tardivi. Ora, tralasciando il fatto che parliamo della più importante autrice di poesie d'America, sarà bene ricordare che questa scrittura lacerata e, almeno inizialmente, sparpagliata non è certo un caso isolato. In tempi più vicini a noi, vi sarà magari capitato di vedere qualche verso, poi finito nelle opere più importanti di Zanzotto, vergato inizialmente su scatole appiattite di medicinali o su altro materiale di risulta. È facile convenire sul fatto che non è il lussuoso taccuino Moleskine o il MacBook Air che fanno uno scrittore e non è nemmeno questo il punto quando si affronta quest'accezione del come e dove si scrive. Queste scritture forse estemporanee, eventualmente radunate e messe in opera oppure rimaste così, senza rilegatura, ci parlano di una configurazione rizomatosa dell'atto di scrivere e dei suoi cicli (per restare a Zanzotto, in periodi di apparente silenzio editoriale, scrisse molti haiku quasi con funzione defaticante e preparatoria, come chi allena un certo tono ed elasticità muscolari). Per usare una parola d'oggi, viene da domandarsi: come si concentrano i tentativi detox di chi scrive poesia oggi? E questo genere di scritture marginali che senso hanno per chi le lascia e per chi le ritrova? E come si mettono in relazione al fatidico libro?


La lettura e la visione di questo volume a colori ci pongono di fatto più di un interrogativo e non ci lasciano in compagnia delle sole considerazioni esposte nelle righe qui sopra. Ad esempio, meditare su questo volume significa anche riporre il tendine della scrittura fuori da una fascia muscolare che spesso pare già predestinata agli automatismi di scrittura/pubblicazione (e poi presentazione, promozione e così via, fino ai casi in cui una scrittura diventa film o sceneggiato). Non si tratta di rimestare le fascinazioni perverse che colgono la scrittura come atto solipsistico, solitario, romantico (la famigerata "cameretta dei poeti" tanto vituperata... peccato che parlare di camera per Emily Dickinson vuol dire parlare di una stanza fondamentale). Semmai affrontare tutto ciò significa porsi un radicale interrogativo sul senso del pubblicare: è qui che questo libro pone, quasi in modo subliminale, i suoi interrogativi più drastici e efficaci. (Per inciso, su ragionamenti analoghi torna anche uno scrittore come Saul Bellow, nel volume di saggi Troppe cose a cui pensare. Saggi 1951-2000 proposto recentemente da SUR, e su ragionamenti del genere sarebbe bene tornare più spesso tutti quanti.) Su questa scia, Emily Dickinson forse qualche pensiero l'ha fatto (oppure nessuno) se di un corpus di circa 1800 poesie né pubblicò in vita solo una dozzina. La nota introduttiva di Nadia Fusini, che giustamente ricorda anche il bisticcio comune a inglese e italiano attorno alla parola "lettera", incomincia col chiedersi come vadano considerate queste parole di grafite che Emily Dickinson segnava in buste scollate, strappate o rivoltate, le quali diventavano, con le loro forme imprevedibili (o forse predeterminate), il perimetro di scritture nuove e piccole, piccole solo per lo spazio che occupano. Il libro qui presentato diventa un'opera nell'opera (un'opera grafica) ed è persino troppo evidente che si possa leggere anche come controcanto al furioso digitare su tastiere più o meno rumorose. In realtà non sono certo queste le speculazioni che più ci devono interessare. Emily Dickinson ha compiuto un'interessante azione sulla busta, su quanto è finalizzato a proteggere e anche a celare. La parola scorre su ciò che deve proteggere, accompagnare e nascondere, la busta è parola e la parola diventa busta. E nei bordi o negli orli irregolari, alcuni segnati dalla colla, abitano quei fantasmi che memorabilmente infestano la sua poesia. In questo, almeno in parte, le buste sono diventate qualcosa di simile agli schermi di dimensione variabile che guardiamo ogni giorno per scopi diversi?

Emily Dickinson ha scritto molto e chi l'ha conosciuta era al corrente di questo, tuttavia non ha pensato di pubblicare. Scriveva in assenza del feticcio del libro e in presenza del pensiero di un'opera infinita, al centro di un postulato che ci dice ancora oggi che la scrittura non è fare il libro, non è pubblicarlo e non è promuoverlo perlopiù parlandogli addosso (la recensione come l'abbiamo conosciuta è quasi sparita e le "recensioni" sono diventate delle righe che lasciamo in un sito di ecommerce dopo un acquisto, magari con lo scopo di ottenere un coupon di sconto). Nessuno vuole intraprendere una battaglia contro l'atto di pubblicare, di veicolare o di promuovere un libro, perché queste sono tutte attività essenziali e trainanti. Qui si vuole soltanto distinguere nella filiera il momento dalla scrittura, che ha risorse e fisicità proprie. Non si venga a dire che distinguere e ricordare ciò, nel caso di un'autrice che ha trascorso buona parte della vita nella camera di Amherst, significa rinverdire il mito della "poesia scritta nella cameretta". E se anche fosse, non credo esista un luogo più eletto di un altro dove la scrittura accade. Nonostante i grandi rivolgimenti che hanno investito la pratica della scrittura, questa resta ancora incredibilmente un fatto di dita e di polso. Fino a prova (o anatomia o locomozione o psicocinetica) contraria.

[Nel pezzo di busta sopra si legge "One note from / One Bird / Is better than / a million words / A scabbard / needs / has - holds / but one / sword" (Una sola nota / di un solo uccello / è meglio di / milioni di parole / Un fodero / ha bisogno / di necessità contiene / una sola spada)]

L'Amherst College Library ha intrapreso un lavoro di digitalizzazione dell'archivio Emily Dickinson consultabile a partire da questo link.

mercoledì 13 dicembre 2017

Poesie di Rómulo Bustos Aguirre nelle versioni di Stefano Strazzabosco

Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.



Rómulo Bustos Aguirre
Psicologia dell’ostrica

Versioni di Stefano Strazzabosco



Quotidiano

Come nei quadri appesi alle pareti
ogni mattina osservi
una lieve stortura del tuo dentro
Ogni mattina credi di correggerla
Ma tra com’era prima e com’è dopo
resta sempre un residuo
una brina di polvere ammucchiata

Su questa oscura aritmetica s’innalza la tua anima



Millepiedi

Il millepiedi per terra nel bagno
che cerca di scalare la parete
O dimena le zampe
nel breve precipizio della tazza

Le lisce, inespugnabili pareti
E le migliaia di zampe dell’anima



Scena a Marbella

Vicino agli scogli c’è Dio supino
I pescatori in fila hanno tirato lungamente la rete
E adesso giace lì cogli occhi bianchi verso il cielo
Sembra un bagnante definitivamente distratto
Sembra un gran pescione dalla coda molto grande
Invece è solo Dio
gonfio e con squame impure
Per quanto tempo si sarà rivoltolato nell’acqua?
I curiosi osservano la pesca mostruosa
Alcuni ne staccano un pezzo e se lo portano a casa
Altri si domandano se sarà conveniente
mangiare un alimento che è stato tanto tempo esposto alle intemperie



Della difficoltà di acchiappare una mosca

La difficoltà di acchiappare una mosca
deriva dalla complessa composizione del suo occhio

È il più somigliante all’occhio di Dio

Per mezzo di una rete di piccoli ocelli
è in grado di osservarti da ogni angolo
sempre pronta a volare

Sembrerebbe che il grand’occhio della mosca
non distingua i colori

Probabilmente non distingue nemmeno fra te che cerchi di prenderla
e i resti decomposti sui quali si posa



Consiglio

Scegliere con cura un punto dell’aria
Coprirlo con la conca delle mani
Cullarlo
Levigarlo nel suo silenzio
Pensa a Dio quando costruì
la sua prima conchiglia o il primo uovo
Avvicina l’orecchio per sentire come batte
Scuotilo per vedere se risponde
Se non resisti alla curiosità
fagli un buchino per guardare dentro
Non vedrai niente. Niente sentirai
Hai costruito un eccellente vuoto
Mettilo adesso sopra il cuore e aspetta
fiducioso che passino gli anni.



L’eterno

L’eterno sta sempre accadendo davanti ai tuoi occhi
Vivo e opaco come un sasso
E tu devi levigare quel sasso
fino a farne uno specchio in cui guardarti guardandolo
Ma allora lo specchio sarà già acqua e ti sfuggirà dalle dita
L’eterno è sempre in fuga davanti ai tuoi occhi



Il necrofago

Il necrofago fa bene il suo lavoro:
mondare l’osso, purificarlo della putrida escrescenza
In qualche luogo della vita, qualcosa
fa esattamente l’opposto: copre l’osso
spinge l’oscura fioritura della carne
Nel suo bizzarro modo
anche il necrofago lavora alla resurrezione dei morti



Osservazione fatta con l’emisfero sinistro del cervello

È probabile che Dio non esista

In fondo questo non ha molta importanza

Più interessante è sapere
che esiste l’emisfero destro del cervello
la cui funzione è sognarlo



Psicologia dell’ostrica

In qualche oscuro momento all’ostrica
è dato sapere
che il male di cui soffre non è un intruso ma la sua radice
Pertanto non può espellerlo
Allora
amorosamente, duramente
decide di cullarlo nella sua madreperla
Poi lo inabissa in seno
Poi lo trasforma nella sua seconda radice
Poi lo dimentica
Poi
fa fatica a riconoscerlo nella poesia
pubblicata su qualche rivista



Cotidiano

Como sucede con los cuadros que cuelgan en las paredes
cada mañana sorprendes
una leve inclinación de tu adentro
Cada mañana crees corregir este desnivel
Pero entre la primera posición y la segunda
queda siempre un residuo
una brizna de polvo que se acumula

Sobre sta oscura aritmética se edifica tu alma



Ciempiés

El ciempiés en el piso del retrete
tratando de escalar la pared
O braceando
en la pequeña vorágine de la taza

Las lisas inexpugnables paredes
Las cien patas de tu alma



Escena de Marbella

Junto a las piedras está Dios bocarriba
Los pescadores en fila tiraron largamente de la red
Y ahora yace allí con sus ojos blancos mirando al cielo
Parece un bañista definitivamente distraído
Parece un gran pez gordo de cola muy grande
Pero es sólo Dios
hinchado y con escamas impuras
Cuánto tiempo habrá rodado sobre las aguas?
Los curiosos observan la pesca monstruosa
Algunos separan una porción y la llevan para sus casas
Otros se preguntan si será conveniente
comer de un alimento que ha estado tanto tiempo expuesto a la intemperie



De la dificultad para atrapar una mosca

La dificultad para atrapar una mosca
radica en la compleja composición de su ojo

Es el más parecido al ojo de Dios

A través de una red de ocelos diminutos
puede observarte desde todos los ángulos
siempre dispuesta al vuelo

Parece ser que el gran ojo de la mosca
no distingue entre los colores

Probablemente tampoco distinga entre tú que intentas atraparla
y los restos descompuestos en que se posa



Consejo

Elegir con cuidado un punto del aire
Cubrirlo con el cuenco de ambos manos
Arrullarlo
Irlo puliendo en su silencio
Piensa en Dios cuando construyó
su primer caracol o su primer huevo
Acerca el oído para oír como late
Agítalo para ver si responde
Si no puedes con la curiosidad
haz un huequito para mirar adentro
Nada verás. Nada escucharás
Has construido un buen vacío
Ponlo ahora sobre tu corazón y aguarda
confiado el paso de los años.



El carroñero

El carroñero hace bien su tarea:
mondar el hueso, purificarlo de la pútrida excrecencia
En algún lugar de la vida algo
hace exactamente lo contrario: cubre el hueso
empuja la oscura floración de la carne
A su extraño modo
el carroñero también trabaja en la resurección de los muertos



Observación hecha desde el hemisferio izquierdo del cerebro

Es probable que Dios no exista

Esto en realidad carece de importancia

Más interesante es saber
que existe el hemisferio derecho del cerebro
cuya función es soñarlo



Sicología de la madreperla

En algún oscuro momento a la madreperla
le es dado saber
que el mal que la aqueja no es un intruso sino su raíz
Por tanto no puede expulsarlo
Entonces
amorosa, duramente
decide arrullarlo en su nácar
Después lo absima en su seno
Después lo convierte en su segunda raíz
Después lo olvida
Después
le cuesta trabajo reconocerlo en el poema
que aparece publicado en alguna revista


Rómulo Bustos Aguirre è nato a Santa Catalina de Alejandría, un piccolo paese dei Caraibi colombiani, non lontano da Cartagena, nel 1954. Ha studiato Legge e Scienze Politiche all’Università di Cartagena; Letteratura Ispanoamericana presso l’Instituto Caro y Cuervo; Scienza delle Religioni presso l’Università Complutense di Madrid. Attualmente lavora come professore di Letteratura nella Facoltà di Scienze Umane dell’Università di Cartagena.
Ha pubblicato le raccolte: El oscuro sello de Dios (1988), Lunación del amor (1990),  En el traspatio del cielo (Premio Nazionale di Poesia Colcultura 1993), Palabra que golpea un color imaginario (poesia riunita, Spagna, 1996), Sacrificiales (2007) e Muerte y levitación de la ballena (2010). Le sue poesie sono state riunite prima in Oración del impuro (2004), poi in La pupila incesante. Obra poética 1988-2013 (2013, 2016).
I testi che si presentano in questa sede sono tratti da: Juan Calzadilla, Rómulo Bustos Aguirre, Doble fondo III. Antologías, Biblioteca Libanense de Cultura, Colombia 2010.