sabato 4 novembre 2017

"Ibsen" di Scipio Slataper e "Casa di bambola": tra nuove messe in scena, nuove possibili interpretazioni e la lettura dello scrittore triestino

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #37


Il classico o quasi classico (fuori catalogo e fuori commercio) di oggi è Ibsen di Scipio Slataper. Esiste un'ultima edizione Vallecchi del 1977, forse ancora girovagante per i circuiti antiquari, oppure, se volete, lo potete scaricare gratuitamente da "Liber Liber" qui. Sul saggio di Slataper torneremo tra qualche riga con abbondanti citazioni che offriranno qualche scorcio della sua scrittura e che intendono essere un invito alla rilettura e - perché no? - alla riproposta di questo suo studio. Per ora si ricordi che si tratta di un libro uscito postumo e derivante dalla tesi di laurea dello scrittore triestino, lodato tra gli altri anche da Claudio Magris (si veda un interessante articolo di Magris su Ibsen e Slataper in questa pagina de "Il Piccolo") e tuttavia scomparso dalla circolazione e dai discorsi, compresi quelli più strettamente ibseniani. Passo indietro: negli ultimi tempi, di Ibsen, ho riletto dopo diversi anni il dramma Casa di bambola, che Slataper curiosamente chiama invece Casa di bambole, testo teatrale arcinoto che risale al 1879 e che l'autore scrisse durante un soggiorno ad Amalfi (il Sud e il suo valore di cura - "laude e gaudio del sole e della libertà meridionale" scrive Slataper - assieme alla tarantella sono ingredienti importanti di questo dramma, come saprà chi ha letto il testo o assistito a una messa in scena). Che la ricezione di Casa di bambola sia stata un fatto epocale è cosa parimenti ben nota e anche negli ultimi tempi si sono lette recensioni legate al percepito di questo dramma, alla sua inesauribilità (caratteristica tipica del grande teatro, che più di altri generi sa perpetuamente mettere sulla scena i dilemmi). Lo scandalo e scalpore - così si racconta - furono davvero grandi e tali da fare il giro del globo. Il personaggio principale, Nora Helmer, è entrato nell'immaginario condiviso e a lungo è stata bandiera del femminismo. Tutte cose abbastanza note e ruminate, specie in ambito accademico, anche se ancora controverse. Nuove messe in scena, come quella ricordata in questo articolo, hanno messo in discussione la portata epocale del personaggio di Nora. Slataper si inserisce con un'analisi che, a distanza di oltre un secolo, ci tiene ancorati alla sua prosa, per visione e stile di scrittura. Come ogni testo teatrale davvero fertile, per fortuna anche Casa di bambola non si può prestare a una lettura data una volta per tutte. Oltre alla chiave femminista, che naturalmente ha tenuto banco, ci sarebbero altri lati del prisma su cui sarebbe opportuno ritornare, come ad esempio la nemesi che si compie su ogni famiglia e qualche ragionamento attorno a un altro vero protagonista (invertebrato) del dramma ibseniano: il denaro. Per Slataper le battute iniziali del dramma tutto contengono in potenza (nel passo seguente il cenno alle didascalie fa pensare a quelle del teatro di Pirandello mentre il titolo Fantasmi, nelle traduzioni più vicine a noi, è diventato più saldamente Gli spettri):
Vediamo la prima scena di Casa di bambole (benché i Fantasmi siano anche più caratteristici in questo senso). Leggiamo attentamente le didascalie, che in Ibsen sono tutte importantissime. «Stanza raccolta, messa con molto gusto, ma senza lusso». Cioè: appena s’alza la tela, ancora prima che nessuno abbia detta mezza parola, il pubblico deve saper subito che chi l’abita non ha molti soldi, ma è raffinato. Difatti «alle pareti pendono incisioni», su un’étagère sono disposte porcellane e altri oggetti artistici. L’ambiente è comodo: un grande tappeto copre tutto il pavimento; c’è la stufa accesa, e molte poltrone e sofà e una sedia a dondolo. Una porta mette nello studio di Helmer. – Voi vedete come qui, in potenza, c’è tutto. 
L'intellettuale morto sul Podgora nota come il dualismo uomo e donna percorra tutta la vicenda compositiva di Casa di bambola, compreso l'allestimento del piano scenico e i ripensamenti che si sono succeduti.
Non è ormai chiaro tutto il dramma? Nora che è scoiattoletto e donna (e perciò «bisogna prenderti come sei»), un po’ bugiarda (perché nega di aver mangiato le chicche), che s’infischia degli altri e domanda soldi con la scusa che gli scoiattoletti devono spendere moltissimo («piccola cantatina e sorriso beato»); e Helmer, con la penna in mano, dilettante estetico che condanna i debiti non per una convinzione morale, non secondo lo scopo per cui si sono fatti, ma perché turbano l’armonia estetica della casa, come una tazza da tè con fioretti azzurri stona su una tovaglia ricamata in rosso. E quando pensa alla ricca paga che presto avranno dice, egli: «Ma proprio! È un gusto a pensarci»; lei: «Ah, è meraviglioso! ». E lo ripete tre volte in poche parole; e lo ripeterà in tutto il dramma. È la sua verità e la sua parola. Nora, abbiam visto, è nata con il «meraviglioso».  
E arrivando alla svolta del dramma ibseniano e focalizzandosi sulla precoce e straordinaria interpretazione della Duse, che con Nora condivideva anche parte del nome, Slataper aggiunge:
Ella non può più ammazzarsi perché non sa più che cosa significherebbe quel suo atto. Ciò che era la sua legge si dimostra vana appena ella s’accorge che non vale anche per gli altri. Ammazzarsi era per lei difendere la propria opera, la propria responsabilità, ma d’impedire che il marito assumendosela rendesse vano il suo atto, la sua falsificazione. Ammazzarsi era per lei difendere la propria opera, il sacrificio di cui è orgogliosa. Ma poiché il marito, senza comprender niente, la giudica un’ignominia, ne è schifato, rifiuta ogni responsabilità, anzi il solo pensiero che altri gliela possa attribuire lo atterrisce – ella deve accettarla lei, veramente, tutta. È questo il momento in cui nasce in lei la vita morale: con la subitanea rivelazione e sbalordimento che sono propri di quella nascita – e che fa stupire tutti i malaccorti interpreti di Nora. Eleonora Duse ha intuito magnificamente ciò, concentrando tutto il fulmineo formarsi della nuova personalità nella brevissima pausa quando Nora che ha visto entrar nello studio il marito incalorito e fremente di desiderio per lei, se lo rivede davanti, dopo un minuto, con la lettera in mano, freddo, gretto, meschino. Proprio quella muta pausa è il fulcro del dramma. E s’inizia quel meraviglioso dialogo represso, in cui Nora a poco a poco, via via che la crisi le si manifesta, trova le nuove parole, tutte nuove, e che aprendosi con lo scatto brutale di Helmer si muta nell’atto d’accusa di Nora contro di lui. È qui che l’amore crolla e la donna diventa un essere umano.  
Sul fondamentale capitolo dell'accoglienza del dramma ibseniano - un fenomeno che andrebbe davvero analizzato tanto che si parlò addirittura di "malattia noriana" - Slataper ricordò il propagarsi a macchia d'olio del successo di Casa di bambola, un successo travolgente, quasi una sorta di malinteso, frutto di interpretazioni affrettate e malaccorte, com'era capitato al Werther di Goethe, altra opera capace di scatenare una serie impressionante di imitazioni maldestre, proprio perché opera che diventa dito nella piaga di un'epoca. Ma ogni imitazione è una bugia, ricorda Slataper, e il "tipo Nora" che si cercherà di veicolare servirà soltanto a "coprire ogni sorta di contrabbando". Per chiudere con le parole dell'articolo di Claudio Magris:
Ibsen è uno dei primi e più grandi poeti del tramonto borghese, nelle cui contraddizioni sapeva di affondare le proprie radici. In ciò consiste il suo potenziale eversivo, arginato dal suo decoro borghese, dal suo stile mai eccessivo e smodato. Radicale continuatore critico di Nietzsche, Ibsen rappresenta la ricerca della vita al di là della morale e della coscienza e mostra come questa ricerca implichi la distruzione della vita stessa. Chi si libera della coscienza, perde l’incanto e il desiderio della vita vagheggiata al di là della coscienza. Il tragico, nell’età contemporanea, tende fatalmente al tragicomico. Nell’età del relativo, diceva già Kierkegaard, l’assoluto è fatalmente ridicolo.
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(Questo post rappresenta un breve ritorno su Ibsen, dopo quello dedicato a Vita dalle lettere pubblicato da Iperborea nel 1995, un libro ancora disponibile che mi è parso un epistolario notevolissimo.)

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