sabato 3 giugno 2017

"Odiare la poesia" di Ben Lerner convince solo per un po'

I lettori di poesia, che poi in Italia si dice essere gruppo coincidente con i praticanti di questo diporto, dovrebbero conoscere bene quel sentimento di fastidio prepotente che a volte sale leggendo versi (altrui, ma forse anche i propri talvolta). Il fastidio, del resto, per poesia o non-poesia, credo sia una grande tematica del nostro presente, apparentemente invece così innaffiato di empatia. L'autore del libro di oggi alla parola "fastidio" preferirebbe di certo "disprezzo", sulla scia dei versi di Marianne Moore con cui apre questo pamphlettino. Credo che ai lettori di poesia, agli scrittori di poesia e persino a certi docenti di lettere, sia ben chiaro quella sorta si sentimento totalizzante e persino totalitario di amore e odio (che non è il catulliano odi et amo) nei confronti di un testo poetico che si apre sotto ai nostri occhi. Come anticipato, potremmo chiamare ciò una sorta di fastidio latente per la poesia, alimentato all'interno dei nostri confini nazionali ma anche all'estero da puntualissimi articoli dei critici un tempo più quotati sulla sua cancrena, agonia, morte sopraggiunta ecc. (Berardinelli, solo per fare il nome di un critico italiano particolarmente attivo in questa pratica che non riesco a trovare interessante). Tra l'altro questi discorsi, fa notare verso la fine del saggio il nostro autore di oggi, riagguantano ogni volta una concezione utopica e idealistica della poesia della quale non sappiamo bene se ci siamo liberati o se comunque vorremmo liberarci. Ad ogni modo - questo è bene saperlo - questo fastidio per la poesia esiste e non è certo solamente un fatto italiano. Sulla falsariga di ragionamenti del genere, ma anche perché si tratta di un autore su cui punta per altri titoli, Sellerio manda in libreria la traduzione di The Hatred of Poetry del giovane e quotato Ben Lerner (Topeka, 1979), traducendo il titolo originale con Odiare la poesia (pp. 88, euro 12, traduzione di Martina Testa). Curiosa è questa traduzione del titolo originale, assai libera e forse più efficace dal punto di vista promozionale, anche se non del tutto corrispondente al movente intimo di queste poche pagine scritte dal nostro poeta e narratore docente di letteratura inglese al Brooklyn College (specifico la docenza perché anche il tema poeti-professori è ripreso in qualche pagina di Odiare la poesia).

Ogni volta che il discorso sulla poesia si sposta e diviene discorso generico sull'ambiente poetico, i suoi frequentatori, i suoi vizi e le poche virtù (ma stanno sguinzagliando da ogni dove la "poesia onesta" a salvarci e possiamo dormire sonni tranquilli), le analisi tendono a diventare sociologizzanti, votate alla considerazione di un dato quantitativo soverchiante (scrivono in tanti, tantissimi, troppi?), schiacciate perlopiù dall'agghiacciante prospettiva del narcisismo totalitario che sta congelando ogni possibile interesse per la poesia (mi può interessare il narcisismo come tema, non le manifestazioni individuali e gli epifenomeni del narcisismo). Ben Lerner non vive in Italia, ma alla fine gli episodi di cui racconta potrebbero benissimo essere presi da ogni parte del mondo dove si scrive in versi e pare quasi che il suo saggio nasca per trovare una risposta a un disagio che lo riguarda da vicino e ci riguarda un po' tutti quando indugiamo in conversazioni poetiche. E il ricorso all'odio per la titolazione ben si attanaglia ai tempi moderni, alle polarizzazioni sociali tra fan base e hater. Il suo breve libro è più convincente nell'attacco, poi sempre meno, fino a un finale che mi è parso tutto sommato sfocato e dispersivo. Di questo libro possiamo salvare il movente, il punto di partenza, e per questo val la pena darne notizia, ma meno persuasivo è parso il tono via via che l'autore si è avvicinato alla fine. Jeff Gordimier, recensendo il volume su "The New York Times", ha scritto che potrebbe a un certo punto risultare che il pamphlet rappresenti una versione contemporanea del dibattito scolastico medievale su quanti angeli potessero ballare su una capocchia di uno spillo. Quella recensione comunque sembra voglia mantenere il piede in molte scarpe. Come detto c'è qualcosa di interessante nell'analizzare quel punto di partenza che accomuna tanti lettori e scrittori di poesia e la disamina del nostro autore, ma siamo lontani dal capire se esiste una sorta di soluzione per quel fastidio-disprezzo, se ha senso cercarla e prima ancora se ha senso parlarne di questo odio o se tanto vale lasciarlo così, senza porsi troppi problemi e domande. Ecco, semmai il libro è un utile stimolo per andare a riprendere in mano la questione dei poeti in Platone, quello sì. Tutto sommato non è poco, come quando, in un passaggio dei più convincenti e carichi di conseguenze, Lerner scrive che l'odio per la poesia "è connaturato a questa forma d'arte, perché è compito del poeta e del lettore di poesia usare il calore di tale odio per disperdere come nebbia il reale, rivelando il virtuale".

(La poesia di Marianne Moore di cui si parla all'inizio e da cui prende avvio il libro di Lerner è questa.)

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