sabato 17 giugno 2017

"A letto non si pensa al futuro" di Lucia Brandoli

Vent'anni fa - era il 1997 e l'autrice del libro di oggi aveva 8 anni - è uscita una raccolta di racconti di ispirazione autobiografica di Emidio Clementi, "cantante" e bassista della formazione dei Massimo Volume. Il libro, pubblicato da un bell'editore scomparso, Gamberetti, era intitolato Gara di resistenza (sottotitolo: Racconti, poesie ed interventi dalle periferie metropolitane) e conteneva una nota di giustezza di Claudio Piersanti. In questa nota lo scrittore di Canzano suggeriva che nei racconti di Clementi "c'è una atmosfera ricorrente, una sensazione: dev'essere già successo qualcosa, da queste parti". Questa sua considerazione è tornata in mente leggendo i 18 racconti di A letto non si pensa al futuro di Lucia Brandoli (Pendragon, pp. 122, euro 13). C'è qualcosa che però non torna: i racconti di Lucia Brandoli non sono quel che si può dire autobiografici, non nel senso di Clementi almeno. In realtà qui andrebbe aperta una lunga parentesi, perché quello dell'auto/bio/grafia resta un tema apertissimo e onnipresente nonché, al di fuori dalla letteratura di genere, spesso travisato. Dagli autori di prosa, la concessione all'auto/bio/grafia è spesso guardata con timore, mentre diverso pare risultare il discorso per gli autori di poesia, che nell'auto/bio/grafia sguazzano da un bel po'. In realtà non possiamo disinteressarci dei tre momenti che compongono la parola auto-bio-grafia. Insomma, è un discorso che riguarda tutti o non riguarda più nessuno (propendo più per la prima, e più che interessarci al voyeurismo autobiografico dovremmo interessarci delle immagini che lavorano in una data opera che scrive comunque una vita, non importa quanto sovrapponibile a quella dell'autore). Ad ogni modo, per tornare a quell'annotazione di Piersanti, i racconti di quest'autrice nata nel 1989 a Modena non trasmettono nemmeno quella sensazione di qualcosa che sia già successo del quale si sconta, si espia o più semplicemente si vive un poi. E allora perché quella frase di Piersanti ha fatto ritorno alla mente? Credo sia successo per forza d'opposizione, pari e contraria, perché più volte in questi brevi racconti si ha la sensazione che debba ancora succedere qualcosa, da queste parti ("parti" spesso geolocalizzate nel continuum aberrante della megalopoli padana). Sia chiaro, qualcosa effettivamente succede: un incontro tra uomini o animali, una violenza gratuita su un cane, un ingegnere alle prese con un'odissea di spesa e incapace di ritrovare il parcheggio, la "vita degli oggetti" di tutti i giorni esplosa tra le nostre vite, diverse situazioni e descrizioni di contesti famigliari (che sono tra l'altro uno degli aspetti più interessanti del libro). Tuttavia leggendo si fa spazio la convinzione che questo libro raccolga momenti in cui qualcosa è già successo, ma soprattutto momenti che di certo stanno accadendo prima di altri. L'autrice disegna una cornice di tempo in cui succede poco-niente, ma l'allungarsi lento di un'ombra al calare del sole, la persistenza di un rumore o di un umore, il disperdersi di un suono di campane accadono assieme a qualcos'altro.

Non è nello spazio della memorabilità insomma che questo esordio gioca una sua scommessa (esordio in prosa, visto che l'autrice ha scritto il libro di poesia Anello di prova). Racconti come Neve o il conclusivo Places Where Spring Happens, tra i più lunghi della raccolta, si impongono a un'attenzione per il modo di fregare blandamente il lettore con lievi inavvertiti scostamenti di montaggio, con la disseminazione di ellissi minime eppure sensibili nella costruzione del passo del racconto. Questo per stare sul lato della tecnica narrativa, mentre sul versante dei temi o dei contenuti che dir si voglia, non saranno tanto le scene più crude (di sesso o violenza, reale o verbale) a sorprendere maggiormente, bensì l'attenzione davvero millimetrica alle relazioni, agli impliciti, a quanto vi è di marcio o vivo e vitale in queste, alla trasposizione di quelle "intercettazioni ambientali" che il raccontare impagina e che sono uno degli aspetti più riusciti. Oserei dire che a dispetto della crudezza di certi racconti, che non sorprende nemmeno pensando alla giovane età dell'autrice (del resto in quale mondo pensiamo vivano o siano cresciuti "i giovani"?), colpisce più un misterioso richiamo criptato alla tenerezza annegato in una propagante apatia. Verrebbe da dire che questa è la cifra o quantomeno una cifra e la miscela che ne esce non è né consolante ne sconsolante: è la miscela che è, e per ora può bastare dire questo.

Al fondo, presente nelle nostre teste e tra i moventi di questi racconti, credo continui a campeggiare un gigantesco interrogativo su quelle che un tempo si chiamavano le epoche di una vita, con i loro confini più o meno permeabili, più o meno elastici. Sempre al fondo, inoltre, resta lo spettro di un nuovo tempo dove queste epoche iniziano ad avere meno senso - o semplicemente un senso diverso - e dove infanzia, adolescenza e la così detta età adulta convogliano le loro linfe e, parimenti, i loro liquami di scolo e veleni verso un unico mostro-corpo, che, iniziando a invecchiare, rischia di perdere l'appuntamento con gli interrogativi perenni del vivere, quelli che hanno occupato a lungo Leopardi, per capirci: il piacere, la noia, la felicità e persino la ricordanza. A questo può capitare di pensare se leggerete questi 18 racconti (e naturalmente vi interrogherete pure sul senso di quel titolo, che mi pare centrato). 

(Per chi vuole, il già citato racconto conclusivo Places Where Spring Happens si può leggere qui.)

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