domenica 15 gennaio 2017

Tradurre in italiano Peter Cameron, Alicia Erian, Davis Grubb, Hilary Mantel, Andrew Sean Greer e altri. Intervista a Giuseppina Oneto

Librobreve intervista #73


Giuseppina Oneto
LB: Incomincio col chiederti dell'ultimo lavoro di traduzione pubblicato, invitandoti a parlare del libro, non necessariamente dal punto di vista di chi l'ha tradotto (se questo è possibile). Che libro è?
R: Mi pare sia Al di là del nero di Hilary Mantel, un testo che avevo tradotto già da qualche tempo e che è stato editato soltanto l’anno scorso, dalla Fazi. Un’opera singolare, affascinante, un po’ destabilizzante. È la storia di una medium che si guadagna da vivere sfruttando la sua capacità di parlare con i morti. Ma lei con i morti ci convive nella realtà, convive con gli invisibili fantasmi delle persone un tempo presenti nella sua infanzia e ormai defunte. E quelle presenze sono l’espressione del male, coloro che contribuiscono a portare l’inferno sulla terra; sono la terribile prova che il bene non soltanto fa fatica a esistere, a trovare posto, ma anche a essere riconosciuto. Alison, la protagonista, viaggia per le sale di provincia, si esibisce in teatri scalcinati e cerca a modo suo di consolare i vivi trasmettendo le parole dei cari estinti, ma edulcorando i loro messaggi. Più di tanto non può dire, non può riferire davvero quello che sente, percepisce e vede, altrimenti spaventerebbe i suoi “clienti”. La sua assistente, Colette, donna piuttosto arida, materiale e scettica, le rimprovera questo suo atteggiamento, anche perché lei stessa vorrebbe sapere qual è la verità, per quanto di fatto cerchi di non saperla. Per lei il mondo del paranormale è per un verso soltanto il modo di guadagnarsi da vivere, e per l’altro di scoprire se l’uomo insignificante e incivile con cui era sposata, è di fatto la sua unica prospettiva di non restare sola. Si tratta di un libro molto particolare, tenero e duro al tempo stesso, poetico e fantasioso, ma anche realista, spietato, ironico, critico. L’ho molto amato, e devo dire che ho scoperto più di Hilary Mantel in questo romanzo che in tanti altri suoi testi. È come se avessi potuto toccare la radice della sua scrittura, quel luogo, nel confronto fra i morti e i vivi, da cui cava le sue storie, la sua dimensione di narratrice di vicende nelle quali è sempre presente una dimensione “diversa”, ben amalgamata al suo elegante, a tratti shakespeariano, fraseggio.

LB: Ora vorrei fare a una traduttrice una domanda sulle recensioni di libri. Al di là della deprecabile pratica di non citare il traduttore, ancora viva anche presso penne importanti, e al di là della difficoltà di spendere parole sensate per la traduzione di un'opera, volevo chiederti, da lettrice di recensioni, cosa ti manca più spesso quando le leggi? Credo infatti che il punto di vista di un traduttore sia interessante per chi scrive recensioni di opere tradotte.
R: La questione, riguardo alle recensioni, è sì per un verso l’omissione, in molti casi, come tu sottolineavi, del nome del traduttore, ma quel che a mio avviso manca, è spesso proprio la consapevolezza che il testo recensito non è nato in italiano. Vi è stato trasportato, con esiti più o meno fausti. Il recensore, a mio avviso, non dovrebbe tentare di trasformarsi in un critico della traduzione, perché ciò richiederebbe alcune competenze più specifiche; se però coglie degli aspetti del testo significativi, o molto significativi, non dovrebbe mai dimenticare il lavoro fondamentale – direi imprescindibile – per la circolazione delle idee che sta alla base della sua possibilità di leggere il libro in una lingua a lui familiare. Vedere trattati i libri in traduzione come se fossero nati in una lingua universale – che nel nostro paese, stranamente, coincide con l’italiano – mi rattrista, e mi dà ogni volta il senso che è ancora lunga la strada da percorrere per una piena consapevolezza culturale del ruolo chiave del traduttore. E della contaminazione fra le culture.

Maxie Wander
LB: Che ricordo hai del primo ingaggio? Quale era l'emozione più nitida? E oggi quali sono le emozioni più frequenti che ancora provi facendo questo mestiere?
R: Di tempo ne è passato parecchio, ma ricordo soprattutto due emozioni di fondo: il senso di infinita scoperta, di permeabilità alle emozioni altrui, di responsabilità nel ripercorrerle (nel caso erano i diari e le lettere di Maxie Wander) e lo sbigottimento di fronte a passi che non volevano piegarsi all’italiano, almeno non al mio, e la conseguente ricerca degli strumenti linguistici e retorici che mi permettessero di avvicinarmi il più possibile al testo originale. Oggi provo ancora emozioni molto simili, che affronto con strumenti fortunatamente affinati e più consapevoli, anche se ci sono momenti in cui trovare l’idea giusta – o più giusta possibile – è sempre una battaglia da condurre con molta pervicacia, pazienza e determinazione.  A volte, non lo nego, oggi provo anche stanchezza, ma più per via del costante scontro con chi, dentro e fuori il mondo editoriale, tenta di restringere ulteriormente il nostro ruolo, non solo con compensi che non tengono affatto conto della preparazione e formazione continua che richiede il nostro lavoro, ma anche coi tentativi di negare che questo lavoro richieda tale preparazione e formazione continua. È una parabola evolutiva strana: più si moltiplicano i corsi e le scuole di traduzione, più, come tendenza generale, si vuole un traduttore inconsapevole, spiccio e disinvolto, veloce e delocalizzato nei compensi e nelle condizioni lavorative.

LB: Da tempo stazioni principalmente su opere di lingua inglese, ma a suo tempo ti sei concentrata anche su opere di letteratura tedesca. Quando è avvenuto il cambio di zona, se così si può definire? Qualche nostalgia?
R: Il cambio è stato dovuto a un rivoluzionamento avvenuto nella mia vita alcuni anni fa. Del tedesco come lingua ho sì nostalgia, ma devo dire non altrettanta della traduzione di testi tedeschi. Quando mi sono trovata ad abitare negli USA (e qui la storia sarebbe lunga), e agli studi si è unita un’esistenza condotta in un’altra lingua, il passaggio a poco a poco è stato naturale. A quel punto, del tedesco mi mancava la frequentazione diretta, il contatto quotidiano, si affievoliva e allontanava la percezione dei suoi ritmi e della sua evoluzione. Tutto ciò, probabilmente, è legato al mio modo di interpretare la traduzione: se non ho viva negli orecchi, non solo nell’intelletto, una lingua fatico a restituire il testo e ho l’impressione che gli esiti sarebbero dubbi. L’altro aspetto che mi ha convinto a continuare con l’inglese è stato l’universo che mi si è spalancato davanti in termini di letterature, tutte scritte in lingua inglese, ma appartenente a continenti diversi. Finora ne ho frequentati quattro (Nordamerica, Europa, Asia [India] e Australia).

LB: Si sa, le traduzioni invecchiano. Nella generale accelerazione di tutto, ti pare che le traduzioni invecchino con una velocità diversa da quella con la quale siamo soliti riferirci al mutamento linguistico? 
R: Per certi versi vorrei dire di sì. Si spalancano nuovi mondi, digitali, virtuali o meno, e si creano nuovi strati linguistici a velocità mai conosciuta prima, e altri si allontanano in tempo sempre più breve. Però non sono molto certa che questo abbia a che fare con l’invecchiamento inevitabile di una traduzione. Penso invece che abbia a che fare con una complessità sempre maggiore del mondo, vale a dire con un convivere di realtà che si moltiplicano, e un traduttore si trova, a seconda del testo, a doverne conoscere sempre di più. La cosa buffa è che, almeno nelle mie ultime esperienze traduttive, debbo attingere al mio passato di adolescente degli anni Settanta e adulta degli anni Ottanta. Certi linguaggi, certi realia, certe espressioni a me sono familiari perché li ho vissuti, e quindi debbo tornare indietro nel tempo per portare quanto più possibile del testo fonte al lettore italiano. E questo aggiunge complessità a complessità. E forse, vorrei aggiungere, che non invecchiano più velocemente le traduzioni, ma i linguaggi in tutte le loro varianti, e di alcuni resterà traccia più duratura e di altri meno.

LB: Posta così la domanda precedente sembra dare una connotazione totalmente negativa all'invecchiamento, che invece non ce l'ha. Secondo te il naturale processo di invecchiamento di una traduzione è una specula privilegiata per osservare meccanismi che difficilmente emergerebbero? Intendo meccanismi relativi alla lingua, alle ideologie e alla retorica in uso presso un traduttore, un editore o finanche un comparto editoriale nel suo insieme.
R: Quel che posso dirti è che sicuramente uno studio che andasse in questa direzione darebbe qualche frutto interessante. La mia osservazione però è più legata al piano sincronico, vale a dire che, a seconda della casa editrice con cui si lavora, ci si accorge che ci sono cose gradite o meno, piccoli o un po’ meno piccoli vezzi che bisogna in qualche modo saper rispettare, o assecondare. Ho l’impressione, però, che questo valga meno oggi, o valga in un modo diverso. Il lavoro editoriale è più sfaldato, meno compatto; ha perso un po’ della fisionomia monolitica come poteva avere in altri tempi, quando la figura dell’editore era più presente in una casa editrice, e non aveva caratteristiche manageriali. Forse un’impostazione ideologica e retorica come quella a cui accenni sopravvive in alcune piccole (medie) case editrici, che sembrano quelle più disposte a raccogliere o perlomeno a cercare di far restare in vita un modo ancora artigianale di fare i libri. Al libro, in questo caso, si tiene di più, e si interviene maggiormente secondo le proprie convinzioni editoriali. Per altro verso, spesso si nota invece che l’ideologia e la retorica prevalente è quella di andare incontro al lettore, vale a dire, di smussare, semplificare, sciogliere – a volte oltre il consentito – i nodi linguistici che pongono problemi interpretativi più impegnativi per chi lavora sul libro e per chi lo leggerà. Il che dà vita a una serie diversa di interventi, secondo un’ideologia di mercato che non sempre è al servizio del testo. E forse nel tempo questi andamenti, e anche altri che a me sicuramente sfuggono, resteranno segnati sulle pagine, e si potrebbero ricostruire studiando l’invecchiamento delle varie traduzioni.

LB: Ogni traduttore ha dei passi che, se potesse, ritradurrebbe all'istante. Capita spesso anche a te? Ci sono situazioni più tipiche di altre in cui ti capita di provare questo desiderio di rifacimento? (Ad esempio nei dialoghi, in passi descrittivi, in quelli contraddistinti da humour o altro).
R: Certo che mi capita, ma devo sorvolare quasi immediatamente. Non soltanto perché c’è un altro libro che attende, ma anche perché – pur avendo lavorato in piena coscienza e col massimo impegno – ormai so bene che il lavoro del traduttore è sempre perfettibile e una traduzione non è quasi mai definitiva (prima che invecchi e decada). Una volta incontrai la scrittrice e storica dell’arte Marisa Volpi, io allora non avevo ancora molta esperienza come traduttrice, e mi disse come per lei fosse irresistibile, riprendendo in mano i suoi libri, correggere qua e là la pagina stampata, a matita. C’era una parola, un’idea, una sfumatura che non era stata colta al meglio. Mi colpì molto questo suo rapporto viscerale con il testo, e da allora, ogni volta che ci ripenso, mi dico che quando sono obbligata a riprendere in mano una delle mie traduzioni (magari per una lezione), è meglio che la tratti come uno degli esiti possibili, non come un testo definitivo.

Hilary Mantel
LB: Attualmente su quale opera stai lavorando (se si può anticipare)?
R: Ancora la mia amata Hilary Mantel: Eight Months in Ghazzah Street, ambientato alla fine degli anni Ottanta in Arabia Saudita. Una coppia inglese, lui ingegnere civile, lei cartografa, si trasferisce a Gedda per lavoro. Non quello di lei, ovviamente, perché le donne, tanto più se straniere, non possono lavorare se non infrangendo la legge, a proprio rischio e pericolo. È dunque la storia di due occidentali che vanno in un paese arabo per ragioni economiche – gli ingaggi sono molto alti – e si trovano di fronte a una cultura che non comprendono, non amano, non condividono, ma che al tempo stesso detesta, diffida e con comprende loro. Mantel ha vissuto effettivamente per qualche anno in quel paese, e il suo resoconto in forma romanzata – nella casa dove vanno a vivere Frances e Andrew, i due protagonisti, c’è al secondo piano un appartamento sfitto che forse viene usato da un membro dell’estesa famiglia reale saudita per incontrare l’amante, comportamento per il quale è prevista la lapidazione per lei e la pena di morte per lui, e parte del mistero che fa da perno alla storia narrata – il suo resoconto, dicevo, è ancorato nell’esperienza vissuta, non pedissequamente autobiografica, e conferisce alla storia narrata una solidità che rende ancora più efficace la maestria stilistica e narrativa dell’autrice nel rendere il senso di mistero, di aria asfittica, di incomprensione culturale che permea il libro. Oltre a creare la suspense necessaria a seguire la vicenda di una coppia che fin dall’inizio non sembra destinata a uscire troppo bene dalla propria esperienza.

LB: Vorrei dedicare l'ultima domanda alla formazione. Tu stessa insegni in seminari di traduzione e volevo sapere come sei solita organizzarli e quali sono gli aspetti sui quali sei solita indugiare. E poi la cosa più difficile da insegnare, se esiste.
R: Sono tre le coordinate lungo le quali cerco di organizzare il lavoro, sempre applicato e solo in maniera molto limitata teorico: sviluppare gli strumenti per imparare a leggere, perché la lettura è il vero atto fondamentale per affrontare ogni traduzione: fondamentale per la comprensione del testo, del suo senso, del suo o dei suoi registri linguistici, e del ritmo (scrivere arriva sempre in un secondo tempo e bisogna interiorizzare questo passaggio); sconfiggere l’automatismo in quanto nemico di ogni buona resa in un’altra lingua: neppure una parola semplice come breakfast è scontato che in certi contesti possa essere tradotta con colazione, tanto per fare un esempio; e formare un chiaro senso della deontologia professionale, senza la quale si rischia di affrontare il lavoro e il mondo editoriale nel modo sbagliato, accettando compensi avvilenti a danno di sé stessi e dei colleghi, firmando contratti non di edizione e quindi rinunciando senza neanche rendersene a conto a tutelare, economicamente e moralmente, un’opera dell’ingegno che rientra sotto ogni aspetto nell’ambito del diritto d’autore. Va da sé che imparare a tradurre richiede molto tempo e molto esercizio, e corsi di questo genere possono essere solo un modo per aiutare a imboccare la strada giusta. Ovviamente non si insegna il talento e se c’è una cosa difficile da far accettare è che la scrittura viene sempre e solo dopo la lettura.

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