giovedì 26 novembre 2015

Domatori di organi_Michelangelo

di Luca Rizzatello

In tre lettere, due delle quali inviate a Giorgio Vasari, Michelangelo Buonarroti triangola poesia, pazzia e senilità. Nell’ordine: 1. E perché standomi a questi dì molto mal contento in casa, cercando fra certe mia cose, mi venne alle mani un numero grande di quelle frascherie che già solevo mandarvi, delle quali ve ne mando quactro, forse mandatevi altre volte, voi direte bene che io sia vechio e pazo; e io vi dico che, per istar sano e con manco passione, non ci truovo meglio che la pazzia; però non ve ne maravigliate, e rispondetemi qualche cosa, ve ne priego1; 2. Messer Giorgio amico caro, voi direte ben che io sie vechio e pazo a vole’ far sonecti; ma perché molti dicono ch’i’ son rinbanbito, ho voluto far l’uficio mio2; 3. Messer Giorgio, io vi mando dua sonecti; e benché sien cosa scioca, il fo perché veggiate dov’io tengo i mie pensieri. E quando arete octantuno anni, come ho io, credo mi crederrete3. Stando a questi campioni, qualcuno potrebbe pensare che per l’anziano M. la scrittura sia esercitata come una forma di svago. Non è così, e in una lettera di due anni posteriore a 3., sempre indirizzata a Messer Giorgio amico caro, scrive: Io esco di proposito, perché ho perduto la memoria e ‘l cervello, e lo scrivere m’è di grande affanno, perché non è mia arte4-5. Lungi dall’essere una fissa della terza età, M. ha indagato per tutta la vita il rapporto tra arti figurative/plastiche e scrittura, secondo una casistica che ha sempre premesse spiccatamente tecniche. Che avvenga per sottrazione:6

Sì come nella penna e nell’inchiostro
è l’alto e ’l basso e ’l medïocre stile,
e ne’ marmi l’immagin ricca e vile,
secondo che ’l sa trar l’ingegno nostro;
così, signor mie car, nel petto vostro,
quante l’orgoglio è forse ogni atto umile;
ma io sol quel c’a me propio è e simile
ne traggo, come fuor nel viso mostro.
Chi semina sospir, lacrime e doglie,
(l’umor dal ciel terreste, schietto e solo,
a vari semi vario si converte),
però pianto e dolor ne miete e coglie;
chi mira alta beltà con sì gran duolo,
ne ritra’ doglie e pene acerbe e certe7

o per fusione a cera persa:

Non pur d’argento o d’oro
vinto dal foco esser po’ piena aspetta,
vota d’opra prefetta,
la forma, che sol fratta il tragge fora;
tal io, col foco ancora
d’amor dentro ristoro
il desir voto di beltà infinita,
di coste’ ch’i’ adoro,
anima e cor della mie fragil vita.
Alta donna e gradita
in me discende per sì brevi spazi,
c’a trarla fuor convien mi rompa e strazi

l’analisi è volta a individuare il punto di snervamento dei materiali – e il relativo traslato metafisico –, a partire da sollecitazioni e condizioni ambientali di diversa natura, tanto pratiche quanto teoriche. Riferendosi alla statua della Notte (Caro m’è ’l sonno, e più l’esser di sasso,/ mentre che ’l danno e la vergogna dura;/ non veder, non sentir m’è gran ventura;/ però non mi destar, deh, parla basso), la superficie di pietra diventa funzionale alla pratica dell’atarassia8. Accade però che in un altro sonetto, pure dedicato alla Notte, la statua diventi contraddittoriamente figura di M., destinato a vivere immerso nell’oscurità, e per niente fratello del lettore:

[…]
Onde ’l caso, la sorte e la fortuna
in un momento nacquer di ciascuno;
e a me consegnaro il tempo bruno,
come a simil nel parto e nella cuna.
E come quel che contrafà se stesso,
quando è ben notte, più buio esser suole,
ond’io di far ben mal m’affliggo e lagno.
Pur mi consola assai l’esser concesso
far giorno chiar mia oscura notte al sole
che a voi fu dato al nascer per compagno.9

L’alternativa sembra essere la metamorfosi, o la rinascita a sé stessi, nella figura del bruco (D’altrui pietoso e sol di sé spietato/ nasce un vil bruto, che con pena e doglia/ l’altrui man veste e la suo scorza spoglia/ e sol per morte si può dir ben nato.), o del serpente (segue: Così volesse al mie signor mie fato/ vestir suo viva di mie morta spoglia,/ che, come serpe al sasso si discoglia,/ pur per morte potria cangiar mie stato.), o di oggetti di uso quotidiano (segue ancora: O fussi sol la mie l’irsuta pelle/ che, del suo pel contesta, fa tal gonna/ che con ventura stringe sì bel seno,/ ch’i’ l’are’ pure il giorno; o le pianelle/ che fanno a quel di lor basa e colonna,/ ch’i’ pur ne porterei duo nevi almeno)10, o della salamandra (Se ’l foco al tutto nuoce,/ e me arde e non cuoce,/ non è mia molta né sua men virtute,/ ch’io sol trovi salute/ qual salamandra, là dove altri muore.)11. Ma queste sono delle fantasticherie; M. ci racconta la sua metamorfosi reale, occorsa durante i quattro anni impiegati per la realizzazione della volta della Cappella Sistina12, nel sonetto caudato doppio I’ ho già facto un gozzo in questo stento:

[…]
La barba al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e ‘l petto fo d’arpia,
e ‘l pennel sopra ‘l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un rico pavimento.
E’ lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e’ passi senza gli ochi muovo invano.
Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.

La superficie del corpo viene rappresentata in tutte le sue irregolarità e deformazioni13, sbilanciando il testo più sulla componente realistica che su quella grottesca; sarebbe quindi paradossale cristalizzare l’immagine del corpo – ovvero il corpo stesso – nella rappresentazione di un Michelangelo TQ; così se la domanda è questa: I’ fu’, già son molt’anni, mille volte/ ferito e morto, non che vinto e stanco/ da te, mie colpa; e or col capo bianco/ riprenderò le tuo promesse stolte?, la risposta è questa: Quante volte ha’ legate e quante sciolte/ le triste membra, e sì spronato il fianco,/ c’appena posso ritornar meco, anco/ bagnando il petto con lacrime molte!.
In altri termini: non c’è riposo, e non c’è soluzione: 

Condotto da molt’anni all’ultim’ore,
tardi conosco, o mondo, i tuo diletti14:
la pace che non hai altrui prometti
e quel riposo c’anzi al nascer muore.
La vergogna e ’l timore
degli anni, c’or prescrive
il ciel, non mi rinnuova
che ’l vecchio e dolce errore,
nel qual chi troppo vive
l’anima ’ncide e nulla al corpo giova.

Leo Spitzer ha scritto che I Sermons del Donne (ed. Potter e Simpson, Berkeley, 1955, vol. II, n. 7, p. 170) ci offrono l’esempio migliore del processo che derivò l’idea religiosa di «mettere in accordo il cuore», nella sua versione protestante, da quella della «lira del mondo»: God made this whole world in such an uniformity, such a correspondency, such a concinnity of parts that it was an Instrument, perfectly in tune: we may say, the trebles, the highest strings were disordered first; the best understandings, angels and men, put this instrument out of tune. God rectified all again, by putting in a new string, semen mulieris, the seed of the woman, the Messias.14
Ma non importa:  

I’ t’ho comprato, ancor che molto caro,
un po’ di non so che, che sa di buono,
perc’a l’odor la strada spesso imparo.
Ovunche tu ti sia, dovunch’i’ sono,
senz’alcun dubbio ne son certo e chiaro.
Se da me ti nascondi, i’ tel perdono:
portandol dove vai sempre con teco,
ti troverei, quand’io fussi ben cieco.15

Note:

1 Lettera a Giovan Francesco Fattucci in Firenze, Roma, aprile-giugno 1547
2 Lettera a Giorgio Vasari in Firenze, Roma, 19 settembre 1554
3 Lettera a  Giorgio Vasari in Firenze, Roma, 11 maggio 1555?
4 A Giorgio Vasari in Firenze, Roma, 22? maggio 1557
5 Circa la faticosità dello scrivere, si citano due passaggi tratti da due lettere di Torquato Tasso, entrambe raccolte nel libro Lettere dal manicomio, Le nubi edizioni, 2005. Il primo: Comunque sia, di due cose l’assicuro: l’una, ch’io non sono di que’ poeti che non intendono le cose scritte da loro; l’altra, ch’io scrivo con molta fatica, la quale non soglion durare coloro che compongono mossi dal furor poetico. (Lettera a Biagio Bernardi, 1 ottobre 1583). Il secondo: Io potrei negar tutte le cose a chi me le dimanda con l’esempio di coloro che non compiacciono ad alcuna de le mie preghiere; ma voglio più tosto che sia biasimata la mia fortuna che la natura. Laonde, quando io non compiaccio a gli amici, è difetto de l’una più che de l’altra; e fra quelli che non saran compiaciuti è Vostra Signoria, avendomi pregato di cosa la quale schivo per elezione e fuggo per inclinazione, percioché niuna è più contraria a la mia malinconia, de la quale io patisco, che ‘l trattar de’ morti, massimamente in composizion lunga, com’è la canzona. E se in quelle che son liete io non soglio passare il sonetto, ne le meste non dovrei arrivarci. Prego dunque Vostra Signoria che non voglia co’ suoi prieghi costringermi a far poesia con la quale possa più accrescere il mio dolore che diminuire l’altri. (Lettera a Marcantonio Zuccoli, 14 dicembre 1585)
6 Oppure, come nel madrigale Sì come per levar, donna, si pone (Sì come per levar, donna, si pone/ in pietra alpestra e dura/ una viva figura,/ che là più cresce u’ più la pietra scema;/ tal alcun’opre buone,/ per l’alma che pur trema,/ cela il superchio della propria carne/ co’ l’inculta sua cruda e dura scorza./ Tu pur dalle mie streme/ parti puo’ sol levarne,/ ch’in me non è di me voler né forza), la liberazione della forma, ovvero il principio di individuazione, si danno per levar
7 Qui la varietà stilistica del v. 2, che sa trar l’ingegno, si sovrappone alla variabilità biologica del v. 11, e a tale proposito si confronti questa posizione con quella di Ernst Haeckel: L’”Urbild” o “Typus”, che come “unità intima originaria” è alla base di tutte le forme organiche, è la formatrice interna che conserva il piano originario e lo propaga per eredità. Al contrario “l’inarrestabile progressivo modificarsi” che nasce “dai necessari rapporti col mondo esterno” determina, come tendenza formativa (Bildungstrieb) esterna, attraverso l’adattamento alle condizioni di vita, l’infinita “diversità delle forme”. (Gen. Morph. I., 154; II., 224). L’interna spinta formativa dell’eredità, che conserva l’unità del tipo (Urbild), è chiamata da Goethe in un altro passo la forza centripeta dell’organismo, la sua tendenza alla specificazione; opposta a questa egli chiama la spinta esterna dell’adattamento, che produce la molteplicità delle forme organiche, forza centrifuga dell’organismo, la sua tendenza a variare, in Storia della creazione naturale, Utet, 1892, p. 54
8 Si consideri, al contrario, il caso in cui l’uomo in carne ed ossa descrive, malsopportandola, un quadretto di così va il mondo: Non sempre al mondo è sì pregiato e caro/ quel che molti contenta/ che non sie ‘lcun che senta/ quel ch’è lo dolce, spesse volte amaro./ Il buon gusto è sì raro/ ch’a forza al vulgo cede,/ allor che dentro di te stesso gode;/ ond’io, perdendo imparo / quel che di fuor non vede / chi l’alma à trista, e ‘ suo sospir non ode. Fuori di poesia, così: Tutte le discordie che naqquono tra papa Iulio e me fu la invidia di Bramante et di Raffaello da Urbino; et questa fu causa che non e’ seguitò la sua sepultura in vita sua, per rovinarmi. Et avevane bene ragione Raffaello, ché ciò che aveva dell’arte, l’aveva da me. (Lettera a Monsigniore… in Roma, Roma, avanti il 24 ottobre 1542)
9 Che nel madrigale S’egli è che ’n dura pietra alcun somigli si complica in una figurazione che intreccia artista, statua e donna amata: S’egli è che ’n dura pietra alcun somigli/ talor l’immagin d’ogni altri a se stesso,/ squalido e smorto spesso/ il fo, com’i’ son fatto da costei./ E par ch’esempro pigli/ ognor da me, ch’i’ penso di far lei.
10 Si verifica una inversione di genere, tanto sul piano del soggetto quanto su quello dell’oggeto, rispetto al genere poetico yongwu (詠物): Infatti i “canti su oggetti” [yongwu] si rifanno ad una antica e consolidata tradizione, in cui il poeta trae un piacere vicario dalla descrizione del languore seduttivo di una fanciulla, che viene oggettizzata in un oggetto specifico. Paolo Santangelo, Canti d’amore a Suzhou nella Cina Ming, Aracne Editrice, p. 12
11 Marco Polo, nel capitolo de Il Milione dedicato alla provincia di Chingitalas, ci spiega cosa è e cosa non è una salamandra: Chingitalas è una provincia che ancora è presso al diserto, entro tramontana e maestro. E è grande 6 giornate e è del Grande Kane. Quivi àe città e castella assai; quivi à 3 generazioni di genti, cioè idoli, e quegli ch'adorano Maccomet, e cristiani nestorini. Quivi àe montagne ove à buone vene d'acciaio e d'andanico; e in queste montagne è un'altra vena, onde si fa la salamandra. La salamandra non è bestia, come si dice, che vive nel fuoco, ché neuno animale puote vivere nel fuoco; ma diròvi come si fa la salamandra. Uno mio compagno ch'à nome Zuficar — èe un Turchio — istede in quella contrada per lo Grande Kane signore 3 anni e facea fare queste salamandre; e disselo a me, e era persona che le vide assai volte, e io ne vidi de le fatte. Egli è vero che quella vena si cava e stringesi insie[me] e fa fila come di lana; e poscia la fa seccare e pestare in grandi mortai di covro, poscia la fanno lavare e la terra sí cade, quella che v'è apiccata, e rimane le file come di lana; e questa si fila e fassine panno da tovaglie. Fatte le tovaglie, elle sono brune, mettendole nel fuoco diventano bianche come nieve; e tutte le volte che sono sucide, si pognono nel fuoco e diventano bianche come neve. E queste sono le salamandre, e l'altre sono favole. Anco vi dico che a Roma à una di queste tovaglie che 'l Grande Kane mandò per grande presenti, perché 'l sudario del Nostro Signore vi fosse messo entro.
12 Così in una lettera al fratello Buonarroto, del 17 novembre 1509: Io sto qua in grande afanno e con grandissima fatica di corpo, e non ho amici di nessuna sorte, e no’ ne voglio; e non ho tanto tempo che io possa mangiare el bisonio mio. Però non mi sia data più noia, che io no’ ne potrei soportare più un’oncia, e così in una lettera al padre Lodovico, di ottobre-novembre 1512: Actendete a vivere; e se voi non potete avere degli onori della terra come gli altri cictadini, bastivi aver del pane e vivete ben con Cristo e poveramente, come fo io qua, che vivo meschinamente e non curo né della vita né dello onore, cioè del mondo, che vivo con grandissime fatiche e con mille sospecti. E già sono stato così circa di quindici anni, che mai ebbi un’ora di bene, e•tucto ho facto per aiutarvi, né mai l’avete conosciuto né creduto. Per chiudere il cerchio, in una lettera del giugno-luglio 1509 inviata al fratello Giovan Simone, che per semplificare definiremo uno scialacquatore/picchiatore di padre, scrive: Io non posso fare che io non ti scriva ancora due versi: e questo è che io son ito da dodici anni in qua tapinando per tucta Italia, sopportando ogni vergognia, patito ogni stento, lacerato il corpo mio in ongni fatica, messa la vita propia a mille pericoli solo per aiutar la casa mia; e ora che io ho cominciato a•rrilevarla un poco, tu solo voglia esser quello che scompigli e•rrovini in una ora quel che i’ ho facto in tanti anni e con tanta fatica, al corpo di Cristo, che non sarà vero! ché io sono per iscompigliare diecimila tua pari, quando e’ bisognierà
13 Circa il valore che ricopre – è il caso di dirlo – la salute di un individuo all’interno di un corpo sociale, si legga Ivo Quaranta: L’attenzione per il corpo, per i suoi fluidi e il suo stato d’essere rinvia, quindi, a dimensioni assai più ampie che non la mera “cura di sé”: i segni del corpo parlano di realtà che trascendono l’immediatezza dell’esistenza individuale e, allo stesso modo, l’intervento sui corpi costituisce una forma di mediazione per agire sul tessuto sociale e sulle relazioni con il mondo ulteriore delle forze spirituali. Se il corpo è contenitore di sëma, è ovvio che il suo aspetto e i suoi stati d’essere siano legati a doppio filo con questa sostanza: essi sono veri e propri indicatori dello stato della sostanza. Un corpo lucido brillante e umido, nei Grassfields, è segno di vitalità, di benessere e di salute; secchezza, debilitazione e opacità rappresentano barometri morali che segnalano una disarmonia nella sostanza del gruppo. […] In virtù della sostanza ancestrale che ospita, il corpo è ontologicamente legato al gruppo e alle azioni dei suoi membri: alla luce di tale simbologia, un corpo corrotto, necessariamente, narra delle implicazioni del soggetto nel tessuto sociale in cui è imbricato, e attraverso cui definisce la sua identità ancestrale: Alcune delle peggiori malattie associate alla stregoneria, come la lebbra, sono considerate delle malattie della pelle, che causano eruzioni e lesioni su una superficie che dovrebbe essere soffice e levigata. […] La salute ed il benessere sono quindi visibili sulla pelle e costituiscono un indicatore dello stato morale della persona (Rowlands 1994, p. 161). Corpo, potere e malattia. Antropologia e aids nei Grassfields del Camerun, Meltemi, 2006, p. 117
13 Tornando alla poesia cinese, in un saggio dedicato all’antologia di canti popolari raccolti da Feng Menglong (1574-1646), Paolo Santangelo ha scritto che privilegiare l’aspetto fisico dell’amore significa dare spazio alle espressioni relative alla componente concupiscibile: il desiderio emerge dal linguaggio figurato che ritroviamo nei canti.42 Esso colpisce egualmente uomini e donne, come il vento di sudest, cioè il vento di primavera, che risveglia i desideri nei giovani e nelle giovani (1:1, 4A, 2:39); non risparmia alcuna età, e sembra aumentare anziché diminuire con l’avanzare degli anni, tanto da essere paragonato al prurito della pelle vecchia per un foruncolo sul tallone (5:132). Canti d’amore a Suzhou nella Cina Ming, Aracne Editrice, p. 29
14 Leo Spitzer, L’armonia del mondo, Il Mulino, 2009, p. 148

Note2:


a Il sëm è una sostanza ambivalente, che dà poteri straordinari usati sia per il proprio vantaggio personale sia per il bene di tutta la comunità. Chi ha un grande sëm può essere, insomma, un fon o uno stregone. Il sëm è dunque neutro anche per quanto riguarda le sue finalità: chi detiene molto sëm è sicuramente una persona potente che può usare le sue qualità a vantaggio o a svantaggio della collettività. Le credenze sul sëm permettono di riflettere sul concetto di potere. In sé e per sé, il potere non è buono, né cattivo, né solo maschile, né solo femminile. AA. VV., Il potere delle donne visto dagli uomini, Franco Angeli, p. 264

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