giovedì 19 novembre 2015

"Cella" di Gilda Policastro

Primo: c'è una parola che m'è subito parsa ricorrente o quantomeno insistente in questo terzo romanzo di Gilda Policastro intitolato Cella (Marsilio, pp. 180, euro 17). Quale potrebbe essere? Si tratta della parola "romanzo". Sembra infatti che l'insistenza su questo lemma ponga la scrittura in un dialogo metaletterario e camuffato sulle possibilità del "romanzo". Avevo chiesto all'autrice un file con il testo del libro per poter verificare, con una statistica lessicale. Il risultato è questo: “Dice che è il nome di un cavallo da romanzo. Nella vita di Elena niente somiglia più a un romanzo, oppure, se a un romanzo somiglia, è uno di quei romanzi che non concludono, con la storia tutta ingarbugliata.” (pag. 11); “Forse l’amore adesso si misura in minuti. Dice, mamma, sapessi quanto si aspettano le donne, nei romanzi. Legge sempre. Legge, va a cavallo, oppure manda uno dei suoi frenetici messaggi.” (pag. 12); “Elena dice che potrei scrivere romanzi, passo le ore a rimuginare su particolari insignificanti. A distanza di giorni le chiedo, all’improvviso, se si ricorda un frammento di qualche conversazione casuale, orecchiata per strada, dal medico, in coda alle poste.” (pag. 31); “Giovanni e le donne. Un giorno lo potrei scrivere su questo, un romanzo.” (pag. 32); “Quando Elena ha cominciato il liceo ho preso in mano qualche romanzo. Ma mi annoiavano queste donne a loro volta annoiate, uomini sempre indecisi, che ne amavano una e poi andavano con le altre. Era lì che avevano copiato, quelli come Giovanni.” (pag. 39-40); “Non riesco ad amarla, come la donna di quel romanzo. Non riesco a dirle che le voglio bene, forse non gliene voglio perché è figlia sua, forse non gliene vorrei in ogni caso.” (pag. 102); “Loro si piacquero subito, avevano i libri, parlavano di quelli. Soprattutto i romanzi russi, ma anche la poesia: le prestò un’antologia che non aveva voluto darmi («cosa te ne faresti, tu»), 100 poeti della DDR” (pag. 111). Insomma l'impressione è che il romanzo ne dissemini molti altri, in più accezioni. Significa qualcosa tutto ciò? Forse l'ossessione del romanzo? La sua banalizzazione? La sua presunta morte? I suoi limiti? Si sa che più si nomina una cosa più si svuota. Si trova anche un'accezione di "foto-romanzo". Questo libro inoltre è intervallato da due foto su cui torneremo.

Secondo: la storia. Chi narra è una donna del Sud che diventa amante mai renitente di un medico benestante, conosciuto e stimato tanto da fare, come molti altri suoi colleghi, il passo della politica. Un cacciatore di donne seriale, anche. Lei proviene da una storia familiare incasinata, con un padre che mise presto nei guai tutta la famiglia. Già, la famiglia: si avverte in tutto questo libro, assai poco "famigliare", come Policastro desideri scrivere di famiglia sopra ogni altra cosa, prima ancora che di sesso. Il sesso non è granché, anche se trapunta un po' tutta la linea della narrazione (viene in mente Girotondo di Arthur Schnitzler, uno dei più grandi "pezzi" che sul sesso siano stati scritti lo scorso secolo). L'iniziazione dell'io narrante avviene presto, in uno studio dentistico dove viene spedita diciasettenne per racimolare soldi. Di lì a poco l'incontro con Giovanni e la nascita di Elena, figlia che nel carattere risentirà del concepimento e personaggio attraverso il quale emerge lo sguardo felice e feroce dell'autrice su chi è più giovane. Giovanni si allontanerà dalla "famiglia" e diventerà latitante per aver curato, nell'ambito della propria professione, una terrorista (è frequente questo inserto relativo alla lotta armata nei romanzi degli ultimi dieci o quindici anni).  Così, con l'imbarazzo tipico che mi assale ogni volta che affronto il temibile "riassunto di un'opera", ho riassunto io. In una intervista a puntate apparsa su "Vibrisse", il bollettino di Giulio Mozzi, Gilda Policastro ha così riassunto: "una donna senza nome racconta la sua condizione di prigioniera: il paese con le sue restrizioni, le frequentazioni di personaggi squallidi come il dentista che la molesta da adolescente, la famiglia con un padre che a un certo punto, per questioni di debiti, se ne va. L’incontro con Giovanni Principe, figura di riferimento per la sua professione di medico e il suo impegno in politica, sembra offrirle una possibilità di emancipazione. Viaggiano, incontrano persone colte come il professore, con cui la donna sarà quasi obbligata a iniziare una relazione. Ma anche Giovanni Principe, a un certo punto, come il padre, la abbandona. La donna si ritrova sola, con una figlia che non riesce ad amare e per la quale è motivo di imbarazzo e di inquietudine, specie dopo il tentato suicidio. Fino all’arrivo di una brigatista, che rimette in discussione tutto il suo vissuto, suggerendole una possibile via d’uscita nel confronto a più voci col suo passato”.

Terzo. Le opere di Louise Bourgeois che inframezzano il testo in due punti potrebbero far pensare a Sebald. Sono foto nel romanzo. In realtà, più che all'autore di Austerlitz, anche qui Policastro s'invia in una metariflessione che riguarda i limiti - e quindi le possibilità - dell'opera, necessariamente multimediale. Non c'è relazione stretta tra storia e opera, almeno nel senso comune che potremmo immaginarci di "relazione stretta".

Quarto: dal punto di vista della scrittura osserviamo un telaio che quasi si regge sulla ricerca di un appiattimento funzionale per tendere il testo e quindi, in ultima analisi, una sorta di strategia della tensione. L'anticipazione del complemento oggetto è un tratto frequente, ma anche la posticipazione come avete notato nei numerosi esempi del primo paragrafo. I dialoghi si fondono senza punteggiatura nel corpo dei brevi capitoli. Se in qualche punto si ha l'impressione di un'ingerenza del lessico specialistico della psicologia, alla fine è più nei territori della letteratura greca che vanno ricercati gli assi (del resto questa ha alimentato larga parte di psicologia, psichiatria o psicanalisi e tutti i nostri complessi).

Quinto: Sade. Non lo dico per le scene di sessualità brutale che apostrofano questa narrazione o per circonvoluzioni fuorvianti attorno a quel che si chiama "sadismo". Sade è stato alla fine uno dei più lucidi "idraulici dell'animo". "Tutto ciò che mi impedisce di abitare la mia tristezza mi è insopportabile" vuole l'epigrafe scelta da Policastro, da Roland Barthes. Lo capiremo leggendo il libro. Il sesso perverso e reificato non è certo la questione centrale di Cella e non è nemmeno il colore primario di un libro che raduna in meno di duecento pagine un pensiero sulle relazioni famigliari, sull'amore, sulla perversione intesa come ingrediente sempre dato nell'esistenza umana. Basta, mi fermo qui. Cinque stazioni come cinque sono le lettere del breve titolo - nome della protagonista - per fissare una nota di lettura puntiforme su un libro che parla soprattutto di potere, più di quanto parli di impotenza. Penso potreste trovarlo notevole per come stempera tanti grumi di temi caldi dell'oggi. Ciascuno a suo modo. E forse, ci penso ora mentre lo scrivo, anche Pirandello c'entra: per come tratta le celle del suo spazio scenico, per il suo speculare attorno alla maschera, alla tortura, alla stanza della tortura (indimenticabile quello studio di Giovanni Macchia sul drammaturgo).

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