martedì 22 luglio 2014

Intervista a Annacarla Valeriano su "Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931)"

Librobreve intervista #44 
 

Non so se sia la presenza dell'ex ospedale psichiatrico di Sant'Artemio a Treviso ad avermi sempre trasportato verso simili ricerche oppure l'ammirazione per libri come L'officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale di Antonio Gibelli, con il loro portato di innovazione e rottura. Avendo intercettato questo libro della storica Annacarla Valeriano ho pensato che sarebbe stato interessante proporre ai lettori un'intervista che illustrasse questo suo recente volume uscito per Donzelli intitolato Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931) (pp. X-262, € 26,00, introduzione di Guido Crainz). Come si ricava dalle note di accompagnamento al libro, quello intitolato a Sant'Antonio Abate fu uno degli ospedali psichiatrici più rilevanti nel panorama italiano e quindi, probabilmente, può assurgere quasi a paradigma per improntare il delicato percorso di studio e ricerca che avvolge simili istituzioni. Nello studio di Annacarla Valeriano attraversiamo oltre cinquant'anni di storia di questo ospedale psichiatrico abruzzese, che fu definitivamente chiuso nel 1998.


LB: Il sottotitolo porta una data di inizio: 1880. Come comincia la storia del manicomio di Teramo? Quali sono le premesse che ne accompagnano la costruzione e l'apertura?
R: Il 1880 è una data simbolica: fu a partire da allora, infatti, che la Congregazione di carità di Teramo iniziò a discutere la proposta di realizzare all’interno dell’ospedale civile Sant’Antonio Abate una sezione dedicata alla “cura e al mantenimento dei pazzi cronici”. Il manicomio poi cominciò a essere operativo l’anno successivo, accogliendo individui poveri tolti dalle case e dalle strade della città. L’apertura del manicomio a Teramo si inserì in una quadro generale segnato da precise strategie nazionali finalizzate al controllo e alla gestione della devianza; non a caso il periodo che va dalla fine dell’800 ai primi decenni del ‘900 è convenzionalmente ricordato come periodo del “grande internamento”. Il controllo sociale delle cosiddette “classi pericolose” fu al centro degli obiettivi della nuova classe borghese, impegnata a consolidare il proprio ruolo all’interno dello Stato unitario e il manicomio in questo senso si inserì all’interno di un ingranaggio istituzionale pensato per gestire “scientificamente” la devianza. Il manicomio Sant’Antonio Abate, inoltre, colmò un vuoto nella regione, poiché fino ad allora in Abruzzo i folli erano stati inviati in manicomi fuori regione, con un aggravio di spesa per le amministrazioni provinciali.

LB: Come si è mossa concretamente nella ricerca? Cosa l'ha aiutata molto e quali sono state le fasi più delicate e difficoltose?
R: Nella mia ricerca ho preso in considerazione 4812 cartelle cliniche di uomini e donne internate nel Sant’Antonio Abate fra il 1880 e il 1931. Il materiale documentario sul quale ho lavorato è stato molto ampio e devo dire che quella che io chiamo una “rigorosa autodisciplina”, fatta di lavoro quotidiano sulle carte e di grande volontà, mi ha permesso di portare a termine il lavoro. Non sono mancati momenti di difficoltà, soprattutto all’inizio quando ho iniziato a “dialogare” con le carte e ho dovuto accostarmi a un linguaggio, come quello psichiatrico, a me sconosciuto fino ad allora.

LB: Mi interesserebbe ora concentrarmi sull'arco temporale della Prima guerra mondiale. Quali sono le scoperte più interessanti relative all'impatto della Grande Guerra sulle stanze del manicomio e come si intersecano le sue scoperte con il grande filone di studi sui "matti" di guerra?
R: Per quanto riguarda la prima guerra mondiale, il dato più rilevante, a mio parere, è costituito dal fatto che il conflitto arrivò concretamente anche in una realtà “periferica” come quella del manicomio Sant’Antonio Abate che, a differenza di altri manicomi, durante gli anni del conflitto non aveva istituito al suo interno una sezione psichiatrica militare. Eppure vennero ricoverati fra le sue mura oltre 260 soldati traumatizzati dalla guerra, sbalzati dalle trincee alle corsie del manicomio. Attraverso i loro diari clinici, i loro racconti, i loro comportamenti, le lettere che inviarono ai famigliari, è stato possibile non soltanto recuperare i percorsi biografici di giovani uomini alle prese con un evento terribile, ma è stato possibile anche comprendere il carattere specifico di quell’evento che incise pesantemente su coloro che lo subirono, destrutturando paesaggi mentali e sovvertendo valori. A essere traumatizzati non furono soltanto i combattenti a diretto contatto con la linea del fuoco ma anche i civili: le donne e gli anziani ad esempio dovettero sostenere il peso dell’attesa snervante di notizie da parte di figli e mariti e in molti casi, non riuescendo a sopportare lutti e sofferenze, cominciarono a manifestare stati di malessere, di ansia, depressioni. Un dato interessante, inoltre, riguarda la presenza di profughi sfollati dal Veneto e dal Fiuli: a partire dal novembre 1917 nel manicomio di Teramo iniziarono a essere accolti quei profughi che avevano sviluppato forme di alienazione mentale in seguito alla fuga precipitosa o agli eventi traumaici vissuti.

LB: Al di là della saggistica e letteratura storica, ci sono opere o autori (ad esempio opere letterarie, qualche scrittore in particolare oppure studi di psichiatria e psicologia) che l'hanno aiutata più di altre ad affrontare questo tema e il suo lavoro?
R: Nel mio libro è presente un dialogo costante con la letteratura: ogni capitolo si apre con una citazione (Checov, Simone Weil, Celine, Hemingway, Benjamin, Sylvia Plath…). Le voci dei grandi scrittori sono state una specie di antidoto per potermi inoltrare nelle voci del dolore e ascoltarle; il ricorso al paradigma letterario, in qualche modo, mi ha aiutata a coniugare la “storia” con le “storie”.

LB: Che cosa mancherà sempre, cosa non è affatto possibile restituire con un libro come il suo? Voglio dire quali aspetti della sua ricerca crede sarà sempre difficile, se non impossibile, comunicare e trascrivere?
R: Il libro prova a restituire spessore e solidità a migliaia di esistenze ridotte alla marginalità, annullate da un’istituzione che ne rimosse i caratteri specifici. Gli uomini e le donne internati nel manicomio Sant’Antonio Abate erano destinati a passare sotto traccia nella storia, eppure hanno lasciato dei segni proprio grazie alle operazioni di rimozione messe in atto da un’istituzione che doveva annullarli. Probabilmente non sarà mai possibile restituire appieno la “sventura” che colpì queste persone, sventura intesa come decadenza sociale, morte civile prima ancora che fisica.

LB: Come si "tengono a bada" le emozioni che possono sorgere affrontando certe ricerche storiche? (Sempre se si tengono a bada, visto che non è detto che trattenerle sia la scelta migliore...)
R: In questa ricerca era inevitabile, per la natura stessa delle fonti, fare i conti con le emozioni: le storie di vita che ho recuperato sono belle e terribili allo stesso tempo. Cercare di tenere a bada le emozioni sarebbe stata un’inutile difesa.

LB: Il libro si interrompe in piena epoca fascista, nel 1931, anche se la storia del manicomio è più lunga. Perché questa scelta?
R: Il libro s’interrompe al 1931: anche questo è un anno simbolo perché è l’anno in cui Marco Levi Bianchini, direttore del manicomio Sant’Antonio Abate dal 1924 e divulgatore in Italia del pensiero psicoanalitico, lascia Teramo per andare a svolgere il suo servizio a Nocera Inferiore. La storia del manicomio è molto più lunga, prosegue negli anni successivi ma per me era interessante soffermarmi, in questa prima fase, su un cinquantennio, prendendo in considerazione il “lungo dopoguerra” e lasciando volutamente fuori il fascismo. Nel fascismo si apre un’altra fase, anche per i manicomi. Magari potrebbe essere un secondo percorso da affrontare in futuro.

LB: Scrivere la/di storia. Spesso ci si scorda di parlare della centralità della prosa adoperata dagli storici. Quali sono i suoi "modelli", se mi passa il termine, gli storici in cui la prosa corrisponde felicemente alla loro epistemologia? Grazie.
R: Credo che ogni storico, oltre a ricostruire gli eventi e a fornire interpretazioni, dovrebbe provare a parlare a tutti, con una prosa che consenta di raggiungere il maggior numero di interlocutori e che sia finalizzata alla verità e all’obiettività del racconto. In questo modo la conoscenza non rimane confinata negli alvei dell’accademia ma si rende accessibile a un pubblico più vasto. Tutti gli studiosi che fanno questo possono essere considerati dei buoni “modelli”.

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