lunedì 3 febbraio 2014

Roberto Cescon e le nuove poesie in "La direzione delle cose": il poeta è un sarto

Il nuovo libro di poesie di Roberto Cescon, La direzione delle cose (Giuliano Ladolfi Editore, pp. 84, euro 10), innesta sopra le composizioni un aspetto di novità, che non mi pare sia ancora stato registrato da chi ne ha già utilmente scritto. Provo a dire meglio, perché siamo di fronte a un libro meritevole, un libro "che resta" si sarebbe detto un tempo, mentre oggi non siamo così ingenui da affermare cose simili, anche se possiamo sempre augurarcelo. Penso a nuove e inedite forme di cura e affetto che emergono sonoramente, come un accordo di bordone, anche nei momenti dove questa cura sembra stare sepolta, quasi una forma adatta (sarebbe più corretto dire forma di adattamento) alla nuova condizione antropologica che per il momento definirei postumana, ma solo perché per ora mancano parole migliori per avvicinarla. Uso anche le parole "cura e affetto" nella massima provvisorietà, in attesa di migliori appigli verbali. Forse è così che si può tradurre l'endiadi che ha scelto Gian Mario Villalta per introdurre alla lettura di questo libro, "impietoso e pietosissimo al tempo stesso". Penso ad esempio alla chiusa di un testo programmatico come L'avanguardia è finita, "Non è tempo di distruggere o fuggire, / dobbiamo starci accanto, / capire che la strada è anche ciò che abbiamo.", alla poesia in cui la compagna lo sollecita a farsi vivo con amici persi di vista con un messaggio, per far sentire che c'è, e che si conclude con questi versi: "Ha ragione, ma io temo / che nessun messaggio possa coprire / la distanza che non voglio coprire / anche se voglio restargli vicino.", oppure in una delle non poche riuscite composizioni metapoetiche, dove la riflessione sul fare poesia stesso riprende un sentiero forse da decenni abbandonato e qui ripercorso coraggiosamente nei versi, e dove la poesia diventa "[...] quello / che passa nel mezzo, nello spazio / che ci divide, quando sentiamo / di essere parte, perché era tutto lì, / bastava solo accorgersi.". Il corsivo nella parola "parte" è mio, l'ho voluto per dire dove riesce questo libro: una poesia che parte e arriva sapendo di essere parte.

Roberto Cescon ha corso con coraggio il rischio di finire catalogato dentro i tanti libri poetici di "antropologia del vicino", ma se certa antropologia del vicino ormai è genere editoriale a parte, con regole che è sufficiente seguire per provare a vendere qualche copia in più, questi testi sono antropologia del vicino soltanto perché questo è la poesia, da che mondo è mondo, ovvero da quando esiste, prima ancora che nascesse la categoria di "antropologia". In realtà, visto che stiamo parlando di antropologia, si dica subito che qui emerge un'antropologia franta, spaccata. Dalle pagine, annota Villalta, emerge chiaramente "la perdita della relazione di continuità antropologica nella quotidianità di un luogo e di un ambiente sociale preciso". Ciononostante, sul fronte della tradizione, si avverte chiaro ed è vivo il dialogo fecondo con un Novecento che non ha smesso di bussare alle porte dell'orecchio e alle porte del cervello, e se la capacità di farsi everyman ricordata da Villalta riporta a Giovanni Giudici, certi componimenti risuonano ancora di Montale. Ci pensavo anche davanti alla bellissima La pianta di limoni, la quale racconta il primaverile trasbordo della "limonera" dal garage al gabbiotto delle galline e il ritorno autunnale, un rito compiuto assieme al padre e che trova posto in un testo dove l'orecchio saprà ravvisare anche il gran lavoro fonico sulla materia sillabica, tanto riuscito quanto per nulla smaccato. Osando potremmo persino ravvisare una pseudobotanica pascoliana da riunione condominiale, allorquando "Sui dettagli converge il disordine / più grande che deforma le priorità: / la gramigna cresce sopra il sofà / il parquet e il silenzio dei led...". I luoghi prediletti dall'autore sono proprio la casa-condominio e i suoi esterni, il supermercato, certi locali, la metro, il parco o il centro città (c'è tutta la vetrinizzazione sociale che forse stiamo subendo dentro questo libro). Le presenze delle persone si rarefanno. C'è la moglie Anna, il figlio Pietro e pochi altri, magari una commessa del supermercato (qui Cescon si avvicina molto agli esiti importanti de I mondi di Guido Mazzoni). Vale la pena, dato che ci siamo, fare anche un altro nome e un altro titolo di riferimento, quel Resoconto su reddito e salute di Igor De Marchi sul quale si potrebbe tornare a parlare a distanza di anni, alla luce di quello che abbiamo letto dopo quel libro, mentre ho trovato che l'autore della prefazione, Villalta, è forse più presente con l'eco di certe sue poesie dialettali (e in un caso anche Cescon ricorre al dialetto).

La vita è spogliazione ("Tutta la vita a spogliarmi / mai veramente del tutto."), la poesia "apre tutti i cassetti" e diventa come un andare controvento. "Vivere era una retta, ora è un segmento" dice un verso fondamentale della poesia che apre la sezione "Principio di indeterminazione", dove il chiarissimo richiamo al principio di Heisenberg sbatte contro quella che in fin dei conti è la sezione più religiosa dell'intero libro, "religiosa" perché riaffiorano determinati ricordi d'infanzia: il prete, la chiesa di paese a Cecchini ritrovata in occasione di una cresima di un nipote, la reazione personale a una richiesta di fare da santolo a un battesimo, oppure il "matrimonio da favola / in un rustico fotovoltaico." de L'auto d'epoca. Sempre nella poesia iniziale della sezione leggiamo che "Il dubbio è un cielo che sta per piovere / dietro il sorriso. Nel frutteto ho piantato / poche cose, che seguono il respiro: / una famiglia, le parole, pochi amici. / Vorrei che la frutta fosse sempre matura, / ma so che basta un attimo. / Rimarranno / le parole, i gesti che siamo stati / da raccontare nel dopo degli altri." e oltre a trovare una marcata direzione di lettura per questo libro troviamo anche alcuni nessi che ci raccontano del lavoro sul verso e la parola, come il divieto d'accesso o le intere elisioni verbali che intuiamo dopo "basta un attimo", oppure l'utilizzo dell'avverbio "dopo" in funzione sostantivata. (In altri punti del libro sarà un convincente utilizzo del discorso diretto o indiretto libero a portare il passo di Cescon all'incontro con le cose "che seguono il respiro".) E ritorna poi quel dire di essere parte, del quale accennavo in apertura.

Come anticipavo, La direzione delle cose è un libro che torna a ragionare sul fare poesia e torna a ragionare anche attorno alle parole. Spesso trovo stucchevole la metapoesia, persino i componimenti dove compare la parola "poesia". Qui invece credo si potrebbe intraprendere un altro percorso di lettura attorno al libro proprio partendo dalle occorrenze di "parola/parole" oppure di "poesia/poeta/poeti". Dal "Non ci sono parole per toccarsi" che termina La poltrona Poäng, un testo dove anche l'operazione di montaggio di una poltrona Ikea diventa motivo di cucitura del libro, al "Non stiamo vedendo le stesse cose. / Le mie sono dove nascono queste parole.", alle parole che non possono scavare "sotto la pelle dei gesti" o a quelle che "ci attraversano / come lastre di ghiaccio / tra la cucina e il salotto". Ragionare attorno alle parole, farlo in versi, è preparazione al più grande ragionamento che questo libro porta avanti sulla trasparenza (prima scrivevo anche "vetrinizzazione sociale") e sul "vero". Villalta scrive nel passaggio centrale della sua introduzione una cosa centrata: "Non è la perdita del passato e del futuro, infatti, a ossessionare il susseguirsi delle annotazioni in versi di Cescon, ma il loro essere già destinati per sempre in una dimensione di  intangibilità, di esclusione da una vera possibilità di essere forza viva dell’agire (e del pensare) quotidiano. La direzione delle cose significa perciò la perdita di opacità del sé, la scomparsa del “segreto” che ognuno almeno una volta ha pensato di portare attraverso la propria esperienza come vera fonte di senso e di rivelazione. Infatti è la trasparenza del fare e dell’appartenere che frustra ogni residua possibilità di trovare in se stessi la via per una dimensione diversa: la stessa lingua diventa ferocemente chiara, ridotta alla forma più denotativa." Mi hanno molto colpito queste parole, a maggior ragione dopo la recente lettura (e recensione) che ho fatto del libretto di Claudio Magris intitolato appunto Segreti e no e incentrato su parole-chiave come "segreto" e "opacità".

Allora, a questo punto, vale la pena riportare per intero la poesia che si intitola Trasparente. Vero e che rappresenta la curvatura più importante di questo libro composto da una cinquantina di componimenti:

È trasparente la parete che divide
i cuochi in cucina dal ristorante,
il guscio del computer, la cupola del Reichstag,
la telecamera negli spogliatoi.

Ci confessiamo per restare nascosti:
l’automobile in leasing, le rate per le vacanze.
Diciamo solo quello che bisogna
sapere coprendo le distanze.

Ma “trasparente” non è “vero”,
perché nessuna parola scava
sotto la pelle dei gesti:
“vero” è se ci sporgiamo
nel buio prima di addormentarci,
le tutine stese in terrazzo,
mia madre quando lavora la pasta,
Anna che copre la mia bicicletta
col telo nuovo della sua.

Per dire le parole quando siamo vicini
occorre una grammatica lenta,
come cercare l’uscita
alla luce di un casco.

Trasparente è il tuo sguardo,
che dice più delle parole
che non hai coraggio.
Vera è l’acqua di questo fiume
che scorre un pensiero negli occhi
fin dove arrivano gli occhi.


La poesia, e quella di Cescon in modo particolare, è nelle cose "quando si spaccano". A stare alla tensione costante di questo libro, viene da pensare che la sua sia una poesia di cose continuamente rotte e spaccate. Il poeta allora è un sarto che "cuce i gesti le cose / per fermare il respiro. // Anche tu / puoi indossare il suo vestito / come una garza o uno spillo / sotto la pelle da tempo." Ripensando alla quotidianità impressa in queste pagine, solo un'assenza mi ha colpito, e penso alla scuola e all'ambiente della classe, contesto nel quale l'autore è attivo per motivi professionali. Materiale di future poesie? Vedremo. Intanto, la stessa vita si può spaccare, si spacca da sé, non c'è bisogno di fare molto, e in fondo la spaccatura serve per provare a raccontarla.

Solo a raccontarla crediamo alla coerenza
della nostra vita quasi fosse una ricetta,
ma la strada resta dritta solo finché la pensiamo:
esistono lepri, buche, strettoie
da attraversare
con le mani ferme sul volante.

La vita è tenere insieme le cose
che abbiamo rotto o sono scappate,
perché facciamo di tutto
per restare a galla,
ci spinge un vento che asciuga
ciò che abbiamo steso.

D’altra parte non possiamo innamorarci
delle storie dei romanzi
e volere che la nostra sia una fiaba.

Dovremmo essere più indulgenti
con gli errori che facciamo
perché vivere è sbagliare, cucire, rialzarsi.

(Ricordo che due poesie poi incluse in questo libro erano già uscite in questo post anche se con qualche variazione di spaziatura tra i versi.)

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