martedì 15 ottobre 2013

Ripubblicato "Rivolta e rassegnazione" di Jean Améry, il saggio sull'invecchiare e sul "vivere con il morire"

Era già uscito per lo stesso editore nel 1988 e ora viene giustamente riproposto, sulla scia di un catalogo che presenta anche il celebre Intellettuale a Auschwitz e Levar la mano su di sé. Discorso sulla libera morte. Mi riferisco a Rivolta e rassegnazione. Sull'invecchiare (libro che in originale presenta un titolo "invertito" Über das Altern: Revolte und Resignation, Bollati Boringhieri, pp. 150, euro 16, traduzione di Enrico Ganni e prefazione di Claudio Magris). Améry affascina, è un saggista di carattere. Il tema è difficile, scivoloso. Si rischia la banalità o il trito e ritrito ad ogni passo. Invece lui riesce a parlare del morire e persino inchiodare il lettore partendo da un'analisi semantica di Rudolf Carnap condotta attorno a una frase di Heidegger. Inutile soffermarci troppo sulla devastante "attualità" del tema dell'invecchiamento, della "senilità" o vecchiezza, tema che tra l'altro negli ultimi anni ha subito ulteriori forti scosse. Parlare di "attualità" del tema sarebbe  del tutto ingenuo, visto che l'invecchiare è un tema che non ha mai conosciuto forti ribassi. Non so dove ho letto che ogni epoca si potrebbe studiare nel suo rapporto tra i vecchi e i giovani, per andare con le categorie di un romanzo di Pirandello (ecco un autore che sotto la luce di questi temi andrebbe riaperto). Per stare all'attualità libraria, si pensi anche a un libro come Sullo stile tardo di Edward Said. Per ritornare alla morte invece, ci si soffermi sulle recenti uscite dedicate da Einaudi a Jankélévitch. Invecchiare per Améry significa riconoscere e sperimentare il futuro come negazione dello spazio, andare ad ogni passo verso la morte significa avvicinarsi ad ogni passo alla negazione del nostro spazio. Il vecchio diventa "solo tempo", sempre più "corpo". Ma che cosa significa invecchiare oggi? E che cosa significherà invecchiare tra soli vent'anni? Probabilmente rimarrà il dado attraverso il quale studieremo tutto ciò, le sei facce mediante le quali avvicineremo il tema (spazio, tempo, corpo, salute e il binomio dato da gioventù-vecchiaia). Ma sarà già mutato, una volta ancora, il corso del fiume che lo definisce.

Leggendo questo saggio non può che installarsi in noi un'eco profonda che attraversa la lunghissima e mai doma riflessione su questi temi (si torni a Cicerone, Seneca ma anche al Proust da cui prende il la Améry). Anche per questo dicevo che si tratta di argomenti sui quali c'è stata attenzione pressoché costante, anche di riflesso, ad esempio quando all'epoca dei totalitarismi sembrava imperare il tema opposto, il corpo giovane cantato dalla macchina da presa di una Leni Riefenstahl. Si pensa naturalmente a quel gran libro che fu Senilità di Svevo (che oltraggiosamente metterei un po' sopra a quell'altro libro insuperato che resta La coscienza di Zeno, romanzo dei romanzi del 900 e che pure rimane nel solco dell'invecchiare). Si pensa ai grandi latini e chi più ne ha più ne metta. Ma perché questo saggio compatto di Améry probabilmente continuerà a spiccare tra tante riflessioni occidentali sul tema? Perché il tema in realtà è mobile, sfuggente, si sposta nello spazio dei secoli e anche dei soli decenni. Pensate a come è cambiata la percezione della vecchiezza in quarant'anni. Questi dati di fatto Améry sembra contemplarli, built-in, nella sua prosa.

Il ragionare sull'invecchiamento non può trasformarsi oggi, in epoca di wellness, nel gesto di una società che scopa le briciole sotto il tappeto. Leggendo l'ultimo capitolo del saggio intitolato "Vivere con il morire" appare vivida la prepotenza genuina con cui il tema della finitudine si impone all'uomo. Scrive Améry: "L'invecchiamento, con il quale emergono e divengono per noi evidenti il non e l'"in" della nostra esistenza, è una regione di vita desolata, priva di ogni ragionevole consolazione; non ci si dovrebbero fare illusioni. Nell'invecchiamento diveniamo il senso interno, orfano del mondo, del tempo puro. Invecchiando diveniamo estranei al nostro corpo e al contempo più intimamente legati alla sua massa inerte di quanto non lo siamo mai stati. Quando abbiamo superato il culmine della vita, la società ci vieta di progettare noi stessi, e la cultura si trasforma in cultura-fardello che non comprendiamo più e che anzi ci fa capire che, essendo noi dei ferri vecchi dello spirito, il nostro posto è fra i rifiuti dell'epoca". Il corsivo è mio. Non è che forse stiamo progressivamente abbassando l'asticella dell'età in cui ci è fatto divieto di progettare noi stessi proprio nel momento in cui alziamo quella dell'aspettativa di vita media? Non è questo momento del divieto di progettare davvero noi stessi sempre più anticipato?

"I veci che 'speta la morte" è una nota poesia del triestino Virgilio Giotti, ricordata anche da Magris nella sua breve premessa. Améry non l'ha aspettata fino in fondo, visto che nel 1978 si è suicidato. Era nato nel 1912 in Austria (il suo vero nome infatti era Hans Chaim Mayer) e nel 1938 l'aveva lasciata per i motivi che tutti possiamo immaginare, per riparare in Belgio e finire a Auschwitz e sotto le torture della Gestapo. In questo libro del 1968 il suicidio resta ancora distante. Ma lavora, per farsi spazio in Levar la mano su di sé, lo scritto del 1976 che ho già menzionato. Io non ho certo letto tutto Tolstoj, mi mancano ancora molti tomi ponderosi. Chissà se invecchierò abbastanza per poterlo leggere tutto. Però la lettura di questo Améry mi sta spingendo a riprendere in mano un libro vicino eppure opposto come il suo Ivan Il'ič. (Nel frattempo vi consiglio un libro fresco di stampa pubblicato da Amos edizioni. Si intitola Morte di un pensionato ed è la prima opera di Vladimir Kantor tradotta in italiano. Credo non guasterebbe leggerla vicino a questo saggio di Améry. A me è capitato per caso di leggerli di seguito, ma ho notato che si è trattato di un "bel caso".)

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