martedì 29 ottobre 2013

"Dobbiamo disobbedire", le risposte di Goffredo Parise ai lettori dalle pagine del Corriere della Sera

Dobbiamo disobbedire (Adelphi, pp. 76, euro 7) è ricavato in parte da Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, libro assai più corposo curato sempre da Silvio Perrella per Liberal Libri nel 1998. Il curatore ci fa presente che gli scritti scelti per questa silloge sono quelli dove lo scrittore, "scrollandosi di dosso la cenere dell''attualità', rende visibile il fuoco sottostante." Vi riscopriamo un Goffredo Parise magnificamente abbandonato, tra la pedagogia e la fantasia. Questa una delle sue cifre. Il volume raccoglie alcuni interventi giornalistici nati attorno a una rubrica che nel biennio 1974-75 lo scrittore veneto tenne sulle pagine del Corriere della Sera. Trovo significativa la collocazione temporale di questo esperimento accolto con entusiasmo da Parise, con un abbrivio poi esauritosi naturalmente, e per la stanchezza accumulata, e per la difficoltà di trovare lettere che lo "aiutassero" davvero a scrivere qualcosa di significativo e pedagogico, stimoli veri per immaginare il futuro e non per rimpiangere inutilmente il passato, lettere-stimolo insomma che non fossero pavide o a circuito chiuso, per nulla dialogiche. Dicevo della significativa collocazione temporale di quest'esperienza, tra la pubblicazione del primo volume einaudiano dei Sillabari e prima della stesura di quel gran libro, scritto sul finire dei Settanta ma pubblicato solo dopo la morte, che si scopre ne L'odore del sangue. Il funzionamento della rubrica del Corriere era quello "classico" di un autore affermato che risponde ai lettori del grande quotidiano "nazionale". Scrivo "classico", ma nello stesso tempo mi chiedo quale autore affermato abbia poi ripetuto l'esperimento riuscendo a suonare con tanto coraggio la tastiera del dialogo con i lettori di un quotidiano. Scrivo quotidiano "nazionale" ma nel farlo mi chiedo se già allora il Corriere vendesse poche copie fuori dalla Lombardia. Parise accettò quel lavoro giornalistico anche per "curiosità umana" (lo afferma lui stesso), la stessa molla che anni prima l'aveva condotto a passare a quello stesso quotidiano scritti di ben altra natura dalle zone calde del pianeta. In questi scritti niente Birmania, Laos, Vietnam, Cina o Biafra, niente frigida eleganza giapponese: qui troverete solamente l'Italia.

Ho letteralmente massacrato questo libretto leggerissimo di pesanti orecchie, tanti sono i passi memorabili della scrittura di Parise e tanto significativi sono pure i brandelli di lettere che Parise preleva e campiona con la sua nasuta sonda, nel gran mare della corrispondenza che non di rado lo accusa, lo biasima o, manco a dirlo, lo taccia di essere, a seconda dei casi, comunista o fascista o giù di lì. Verrebbe da dire che da buon medico, usando i sensi e la lingua, Parise individua molti dei sintomi dei cancri italiani (cosa che del resto aveva già iniziato a fare con Il prete bello o Il padrone). Quest'abilità di diagnosi appare chiara, finanche lampante, quando parla della "povertà", che significa capire bene fino in fondo ciò che è "necessità", capire le differenze tra le cose in un paese che è diventato "un'enorme bottega di stracci non necessari", un rimedio nella "povertà" - aggiungo ora, in questi giorni - ben lontana dalle favolette delle "decrescite" che tengono banco da anni, con aggettivi qualificativi plurimi, in calderoni d'opinioni che si crogiolano spesso in bassezze e vigliaccherie, come quelle dell'agroalimentare minimal-slow-OgmFree per partito preso (signori miei come si tiene in vita una popolazione mondiale in crescita? Tutti alimentati con l'agnello dell'Alpago presidio slow o a pane, magari non banale pane ma un "Pan di Sorc" e "botìro di Primiero di malga"? O con innovative ricette ottenute mischiando la "Pecora Villnösser Brillenschaf" con "Aglio di Resia"? Che vivacchi pure lo Slow Food nel suo territorio definito in negativo rispetto al Fast Food, ma che non si spacci per cultura un'invenzione del marketing più territorialmente segmentato, per quanto possano essere buone le sue cose da mangiare o da bere). Quasi ci inquieta leggere le pagine dove Jaufré "incapsulato / in una botte" (sono i versi lagunari di Montale a lui dedicati) prende di mira quell'uccellin di lettore che vorrebbe un'esperienza di lettura del giornale rilassante ed evasiva, senza le brutte notizie, o quando mette a segno un altro colpo da maestro del giornalismo parlando della dissonanza tra l'umanesimo che impronta l'offerta scolastica italiana, allora come oggi, e la società nata sul gran falò televisivo (ora digital-televisivo) che di questa scuola deve incomprensibilmente servirsi, oppure quando si sofferma sui politici e sulle loro facce, così come sono percepite e pre-giudicate da una cultura contadina (sì, "facce", avete letto bene, e tra tutte sono sicuro che vi resterà l'analisi della faccia di Berlinguer). E poi parte letteralmente in quarta, nello stupendo e doloroso scritto intitolato L'Italia dei "lotti", dove è marcato e ricorrente il senso di uno Stato italiano che non c'è e forse mai ci sarà. In quest'occasione Parise quasi rimbrotta un malcapitato signor Framarin che gli chiede di intervenire sulla questione di tutela del suo (loro) paesaggio d'altopiano vicentino, la montagna veneta Verena-Campolongo. Parise dice che non vuole ricordare quel paesaggio che non c'è più (lo stesso paesaggio onirico che forse s'insinua tra la foschia chagalliana de Il ragazzo morto e le comete), che non avrebbe senso farlo, e produce un pensiero molto più utile, un piccolo capolavoro di prosa giornalistica del quale non riesco a non riportare un brano abbastanza lungo, la cui verità sembra sempre più sotto gli occhi di tutti (anche se sta prendendo magari nuove forme):

"L’Italia non vuole più essere l’Italia. Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro e della chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano, e se ne fregheranno i loro figli quando sarà il momento. Gli italiani non vogliono più essere italiani perché vogliono essere ancora meno che regionali, vogliono essere “paesani”, “paisà”, perché l’unità d’Italia, che del resto non c’è mai stata, oggi c’è meno che mai. 
Oggi l’Italia è spezzata non in staterelli, ma in “lotti”, in piccole, piccolissime, proprietà private a cui gli italiani, nel loro povero animo e nel loro povero corpo privi di Stato tengono in modo fanatico. Per gli italiani di oggi, non di ieri, l’Italia è il “lotto”, il proprio terreno, la propria villetta, il proprio “bicamere e servizi”, costruiti da geometri o finti architetti secondo i propri gusti e soprattutto in materiali pressoché eterni come il cemento armato che diano a quei poveri corpi e a quelle povere anime senza Stato l’illusione di averne uno, indistruttibile. Se potessero costruirsi un bunker, con fabbrichetta accanto e un proprio esercito personale, lo farebbero. Il perché è troppo lungo da spiegare, fondamentalmente va ricercato nell’assenza non soltanto dello Stato ma dell’idea dello Stato (che fa lo Stato), che non gli è mai stata insegnata, che non hanno mai amata, che è ostica al loro cervello e al loro cuore, e in cui non credono."

Ma non pensate che sia solo questo il Parise che risponde ai lettori del Corriere, e meglio ancora potreste fare vostra questa convinzione se venite a capo del più ricco volume Verba volant. Ad una lettera anonima che si interrogava sul suicidio, Parise rispose:

"Mi dispiace molto che non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome, ma l’avrei cercata, per telefono, una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abita e per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, gli anni e la vita che ci è dato vivere (qualunque essa sia sempre bella appunto, perché imprevedibile come il tempo) e che è tutto, dico tutto, quello che abbiamo".

(Questo libro si legge in una quarantina di minuti. Ho preso metà di questo tempo per scrivere, forse troppo disordinatamente, un brano che avrei potuto sintetizzare in una frase: se vi capita, leggete questo libro appena uscito. Ogni tanto consiglio apertamente.)

1 commento:

  1. Grazie del consiglio. Parise come narratore non mi fa impazzire ma questo libretto potrebbe essere un nuovo inizio...

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