venerdì 21 giugno 2013

"Mus.cio e roe" (Muschio e spine) di Fabio Franzin

Ripescaggi #26












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Fabio Franzin è tra i selezionati della prossima edizione del Premio Viareggio. Questa è una bella notizia. Ripesco qui una recensione al suo Mus.cio e roe (Muschio e spine) uscito per le belle edizioni de Le voci della Luna nel 2007 (pp. 152, € 12,00) nella quale esordivo evidenziando il suo progressivo aprirsi verso un pubblico di lettori più ampio. Tale processo è evidentemente ancora in corso, data la notizia che qui condivido con voi.
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Già da qualche anno Fabio Franzin non è più quel che si dice un outsider della poesia italiana. I suoi libri hanno iniziato a circolare con maggior frequenza e intensità, così come la sua voce, che non ha mancato le occasioni per farsi ascoltare nell’ambito delle più belle iniziative di lettura poetica. Parallelamente, i suoi libri hanno avuto frequenti riconoscimenti nei premi di maggiore importanza e affidabilità (non di certo nei premi nei quali viene richiesta una “tassa di lettura” per poter partecipare: capita di leggere simili invenzioni linguistiche, di questi tempi, in alcuni bandi).
Questo Mus.cio e roe, in omaggio al detto che vuole la poesia sempre inedita, è, in parte, un’opera di riscrittura e revisione di due importanti opere in dialetto ormai irreperibili, pubblicate quasi clandestinamente nel 2000 e nel 2005: El coeor dee paroee e Canzón daa Provenza (e altre trazhe d’amór). Franzin, nella sua nota, spiega le ragioni di questo libro in termini prettamente pratici (irreperibilità dei libri citati, scarsissima circolazione e fruizione all’epoca della loro uscita). Al lettore di oggi il libro si offre tuttavia lontanissimo dai caratteri dell’antologia. Questo volume, completato da una trentina di testi inediti, mostra invece il senso dell’urgenza, il desiderio di portare in salvo un universo, ricostruito e rielaborato sotto la luce, i colori e i silenzi della scrittura in dialetto. Un universo di affetti familiari, ritratti, vicende collettive e paesaggi cantato con gli accenti della sofferenza, dell’assenza, della pietas e finanche dello sdegno della migliore poesia civile. Si prenda, ad esempio, il caso del muschio, vero e proprio topos della poesia di Franzin tanto da fornire spunto per la titolazione, intravisto con stupore e disappunto persino sugli scaffali di un centro commerciale proprio nel momento in cui, per l’autore, è più forte il valore di questo vegetale come testimone degli affetti e della memoria famigliare.

Implicitamente Franzin rimanda continuamente a un mondo in crollo, quasi in rovina. Non si tratta di catastrofismo nel senso comune del termine. Siamo nell’ottica di qualcosa che cambia forma, si trasforma. E il mondo che Franzin vorrebbe trarre in salvo non è un nemmeno un mondo rivisitato con nostalgia. Non a caso Franzin scrive “giostra della nostalgia”, quindi qualcosa che gira e non è a senso unico, qualcosa che compie una rivoluzione. Succede nella poesia iniziale della sezione Dai paesi al presepio (Dai paesi al presepe): Me piase i paesi che i ‘è riussìdhi / a deventàr veci. ‘Ndo che l’é brode / tii muri, cancèi storti e case ribandonàdhe, ortìghe, rùdhene / e storie de porti. Òni tant / calcùn se ciama, calcùn / òni tant el scanpa via // pa’ tornàrghe par sempre / sora ‘a giostra dea nostalgia (Amo i paesi che sono riusciti / ad invecchiare. Dove ci sono croste / lungo i muri, cancelli sghembi e case / disabitate, ortiche, ruggine / e storie di gente umile. Ogni tanto / qualcuno si chiama, qualcuno / ogni tanto fugge via // per ritornarci, perenne, / sulla giostra della nostalgia). Un ungarettiano sentimento del tempo si avverte anche in poesie come Rovinàzhi (Macerie), nella bellissima poesia “Ma pensa anca ai sassi” (Ma pensa anche ai sassi) o nell’acuta (di sguardo) Dopo ‘l scarvazhón, Venezia (Dopo l’acquazzone, Venezia) dove la città viene descritta, in una chiave totalmente inconsueta, negli attimi immediatamente successivi ad un violento acquazzone.

La poesia di Franzin appare in tensione verso due risultati contrapposti che sono forse, nella realtà, il dritto e il rovescio di un’unica medaglia: la tensione divisa tra umanizzazione del paesaggio e paesaggificazione degli uomini: “fin tel cancèl dei tó òci” (sino al cancello dei tuoi occhi), “tea tenpia nuda del prà” (sulla tempia nuda del prato), “Sognàr ‘e coìne, / ‘e pianure del tó corpo (Sognare le colline, / le pianure del tuo corpo)”. Sono esigenze profonde del dialetto e della storia individuale di questo poeta che sa crescere la propria poesia con la gratuità, il pudore e la lentezza appartata del muschio che appare nelle zone d’ombra della vita.

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