martedì 29 maggio 2012

Il cibo, il progresso e il sapere nostalgico. "Pane e pace" di Antonio Pascale

A volte, quando leggo libri come questo, mi prende la voglia di prestare o regalare pagine simili a tante persone. A chi ad esempio è preso da un'acritica "sicumera biologica" e civilizzatrice, tanto per iniziare. Tante persone che incontro e che hanno (per me) idee paurosamente troppo chiare su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è sano e quello che non lo è. Questo mi è capitato anche con Pane e pace di Antonio Pascale (Chiarelettere, pp. 100, euro 7,50). Il mio atteggiamento e desiderio di regalare libri simili a persone non avvicinate dal dubbio è profondamente sbagliato, ne sono consapevole, ma questo serviva per dire sin da subito con quale favore saluto ogni volta pubblicazioni simili. C'è un grumo denso di interrogativi che Pascale (autore di bei libri di narrativa, di un altro saggio meritevole d'attenzione, Scienza e sentimento, e che nella vita è agronomo) fa vorticare sopra le nostre teste: perché quasi nessuno si farebbe curare con tecniche odontoiatriche di 50 anni fa mentre tutti sono attratti da quella promessa di purezza che l'agricoltura di mezzo secolo fa sembra incarnare? Perché non si riprendono in mano parole paurose come "pesticida" e si prova a capire davvero da dove derivano? Le parole sono importanti. E se capissimo di più certe parole farebbero meno paura. Perché non si ammette, con Paracelso, che anche con gli agrofarmaci il problema sta sempre e solo nella dose? È la dose che fa il veleno. Perché, per par condicio, non si parla anche dei veleni del "biologico"? Non mi risulta che il rame consentito dalle disciplinari del biologico e sparso in grandi quantità sia un toccasana per le falde, e Pascale pare confermarlo. Da dove deriva questo strano atteggiamento anti-innovazione che riguarda un settore fondamentale come l'agricoltura (in un'epoca poi che ci vede, altrove, attratti da tante altre innovazioni, forse meno innovative di qualsiasi innovazione che tocchi la terra e la coltivazione di questa, dato che, come affermava il Nobel per la Pace Norman Borlaug, "chi produce pane produce pace")? Da dove deriva tutto questo "incanto per il tipico" che forse è più nocivo di quanto si pensi? La discesa agli inferi di tipicità-autarchia-Fascismo è dietro l'angolo...


Lo stratagemma narrativo di Pascale è efficace. Parte dalla generazione dei figli e risale fino a quella di suo nonno. Ad un certo punto fa pure resuscitare il nonno, immaginandolo mentre impreca verso un mondo paralizzato che non ha innovato e che guarda al passato come a un momento d'oro, ipostatizzandolo in un'aurea inservibile di genuinità. E non risparmia la giusta dose di critiche a tutti i vari esponenti politici che in materia agricola hanno dato segnali preoccupanti (destra, sinistra, lega) e emanato provvedimenti ancora più nefasti. Questo tenere assieme le generazioni con il filo dell'agricoltura è solo apparentemente un pretesto. Riguarda il problema fondamentale del nostro stare al mondo, il nutrimento che ne ricaviamo. Sono importanti le pagine dedicate alle mondine nelle risaie, bellissimi i paragrafi dedicati ai miglioramenti introdotti da Nazareno Strampelli (ironia della sorte, proprio durante il Fascismo!) o al professor Francesco Sala e ai problemi del melo della Valle d'Aosta superati con un'operazione intelligente a budget pressoché nullo. Insomma, in poche pagine non mancano spunti per riflettere approfonditamente su una delle tematiche più controverse del nostro presente, epoca che ci vede spaventati per il solletico di una sigla come OGM senza pensare che "tutto è geneticamente modificato", dove viviamo nello spauracchio della quasi monopolistica Monsanto senza pensare che le organizzazioni che alimentano questo spauracchio sono spesso le principali alleate di questo regime monopolistico che vede regnare e proliferare una sola multinazionale. Tutto è magnificamente riassunto nella frase che chiude il libro: "Senza volerlo, i migliori alleati delle cattive multinazionali oggi sono i bravi ambientalisti", perché è il circolo della paura innestato nel "bravo consumatore" che tende a favorire barriere all'entrata per altre aziende biotech, richiedendo spesso, più del necessario, ripetuti, inutili e soprattutto costosissimi controlli che non vanno al nocciolo del problema, che rimane tutto nel regime di monopolio che sta alla base della tecnica di miglioramento dei semi.


Insomma, il mondo e l'agricoltura con esso sono ben più complessi di una chiacchierata da bar fatta a suon di "no OGM" e "mangia sano torna alla natura" o, andando a prestito delle espressioni intercettate da  Pascale, "piccolo è bello", "tradizioni e costumi locali". Personalmente trovo questi ultimi due citati gli aspetti più nauseanti del nostro paese e non credo servano più di tanto nemmeno a vendere il brand Italia in termini di turismo, se vogliamo porre la questione in simili termini (che servano forse le infrastrutture vere e mentali per vendere il brand Italia?). Propedeutica a qualsiasi futura discussione sarà allora una seria e attiva informazione scientifica, assieme a un calo progressivo della dose di emotività legata al tema cibo. Dobbiamo provare a conoscere meglio questa materia. "Solo conoscendo la materia potremmo trovare la buona e giusta soluzione. È necessario essere possibilisti. Né ottimisti né pessimisti, ma possibilisti. Al bando le emozioni e viva i ragionamenti laici, analitici, caso per caso. Dobbiamo farlo, il mondo merita di essere un posto migliore". 

3 commenti:

  1. Attento a scrivere così... rischi il linciaggio ;-) (della "sicumera biologica"). R.

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  2. UNO SPUNTO: INTERESSANTE SAREBBE LEGGERE PASCALE AL FIANCO DI LEVI. MARCELLA

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