martedì 1 novembre 2011

Pavel Florenskij, stupore e dialettica













Curioso che siano voluti oltre sessanta post per scrivere per la prima volta di un libro di Quodlibet, casa editrice per la quale ho sempre provato qualcosa di simile ad un debole (chi non ha i propri, parlando di libri?).

Prosegue anche grazie alla casa editrice di Macerata la proposizione degli scritti di Florenskij, un'operazione intrapresa da più editori e da diversi anni. Tra gli apripista, tanto per cambiare, contiamo Adelphi, quando sul finire degli anni Settanta pubblicò il celebre saggio sull'icona dal titolo Le porte regali curato da Elémire Zolla. Il Leonardo di Russia, un raro esempio di pensatore acrobata dello scibile, per altro costretto a vita breve (morì fucilato in un gulag nel 1937), è protagonista di una vivacità editoriale impensabile, forse collegata alla stessa sua etereogenità di speculazione, alla sua profonda e impareggiabile erudizione e anche alla sua stessa biografia. Prima di illustrare brevissimamente, per quanto possibile, questo libretto tradotto da Claudia Zonghetti (che piacere ritrovare la traduttrice alla quale dobbiamo la "ricreazione" in italiano delle opere di Vasilij Grossman), ricordo un libro-bussola che resta a mio avviso una "porta regale" per l'accesso alla figura di Florenskij: la monografia che gli ha dedicato per Bompiani uno studioso intelligente, puntuale e forse defilato come Silvano Tagliagambe.

Stupore e dialettica (a cura di Natalino Valentini, pp. 110, euro 12) consiste nella traduzione di un manoscritto dell'anno 1918 scoperto ormai venticinque anni fa, nel 1987. Il titolo è trasparente. Il libretto è davvero una dissertazione attorno a questi due caposaldi della sua riflessione. Ma è anche l'operazione culturale della casa editrice che qui interessa. Lo smilzo libretto che Quodlibet propone sembra avvicinare un compito proibitivo: riportare una filosofia fin troppo "scafata e scaltra", conoscitrice soprattutto di se stessa e dei propri meccanismi di funzionamento, su binari socratici, su parole fondamentali, proprio come quelle del titolo.

Dallo stupore per il novum la conoscenza può davvero sgorgare, così come può sgorgare da un socratico e continuo rimettersi in discussione. E la dialettica? Pare il rovescio della medaglia, o il simbolo, in senso etimologico, il "metodo sperimentale" che lo scienziato Florenskij mutua per la filosofia. Funziona? Credo che domandarsi se questa dialettica funzioni sia porsi una domanda errata. Forse è la metafora leonardesca che abbiamo utilizzato in apertura che ci porta fuori strada, una metafora che nasce dalle molte attività che lo videro coinvolto (fu anche ingegnere, fisico, teologo, linguista). Florenskij, da un punto di vista prettamente filosofico, è più vicino ad essere il pitagorico di Russia (con tutto quello che si perde in simili semplificazioni): i numeri, il ritmo speculativo e metodologico, la contemplazione mistico-musicale del mistero, un mistero che ha soprattutto un segno spaziale con sé. Il suo è un pensiero che risale ai primordi e che nei primordi dialoga. In questo breve spazio possiamo soltanto solleticare il classico invito alla lettura, perché da queste pagine e da Florenskij potrebbe presto passare un ripensamento della filosofia e dell'epistemologia del secolo scorso. Inoltre, chi già ha apprezzato i suoi scritti, potrà qui utilmente focalizzare i precursori del suo pensiero, verrebbe da definirli i giganti sulle cui spalle Florenskij stesso cammina se non ci sfiorasse il dubbio di avere davanti, a nostra volta, un moderno gigante.

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