mercoledì 23 novembre 2011

A cinquant'anni dai "Giorni felici" di Samuel Beckett


Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #6













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Cinquant'anni fa, per la precisione il 17 settembre 1961, al Cherry Lane Theatre di New York, si tenne la prima mondiale di Happy Days di Samuel Beckett. Il 1961 fu anche l'anno dell'uscita einaudiana del Teatro di Beckett (la traduzione affidata a Carlo Fruttero). Dieci anni più tardi, nel 1971, Beckett si trova nel nostro paese (che conosceva bene, aveva studiato anche l'italiano), esattamente a Santa Margherita Ligure, per lavorare ad un'altra importante messa in scena dell'opera, quella dello Schiller Theater di Berlino.
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Leggendo il teatro di Beckett, leggendo Giorni Felici ma, a dir il vero, a seguire a ritroso il percorso di una discreta parte del teatro del Novecento (penso anche a Pirandello) ho iniziato a fissarmi su questa similitudine: che l'uomo moderno sia illuminato in questo segmento di teatro (e che poeta dell'illuminazione è stato il drammaturgo irlandese!) nella sua condizione di fossile, uomo come fossile vivente. "Fossile" credo sia, all'occorrenza, il sostantivo-aggettivo adatto alla definizione della condizione umana all'interno del teatro di Beckett. Fossile perché i suoi personaggi sono come resti di organismi viventi già esistiti, che si sono scavati una loro tana in qualche elemento minerale e continuano a portare un messaggio (un calco) lacerante dei tempi e nei tempi.


Allora pensiamo anche e soprattutto alla messa in scena di Giorni felici, al monticello che seppellisce per buona parte Winnie (cercate magari qualche foto di scena con Google Images, ce ne sono di molto interessanti), la protagonista chiacchierona e felice di questo dramma breve in due atti, alla sua immobilità, alla "vita" del compagno Willie, l'uomo sulla sessantina che lei quasi non riesce a vedere, posto dietro e fuori dal suo campo visivo e che tuttavia, a differenza sua, riesce a muoversi, strisciando come un serpente, magari con l'aiuto della vaselina. Willie risponde a Winnie a monosillabi o leggendo righe del giornale. Sono due persone che hanno già vissuto e in qualche maniera tornano a vivere da fossili, energia imprigionata, memoria imprigionata, bellezza scavata. Addirittura felicità, Winnie ha continuamente nella bocca l'aggettivo "happy". Sono fossili, oggi potremmo anche dire, tragicamente, combustibili fossili.


La grande innovazione di Beckett è sicuramente nella messa in scena, in ciò che lo spettatore vede. In questo Beckett è magnificamente saldato con gli albori e l'essenza del teatro stesso. Beckett gioca apertamente con le regole intime della rappresentazione (così come straordinariamente aveva fatto Pirandello... se vi capita riprendetevi anche Giovanni Macchia e il suo Pirandello o La stanza della tortura), dimostrando come un'attenta conoscenza di queste diventi il primo passo dell'innovazione scenica. Leggere semplicemente i dialoghi (anche se sarebbe più corretto parlare del quasi monologo di Winnie) senza avere alcun appiglio a ciò che (non) si muove sulla scena porterebbe a pensare ad una normalissima conversazione, sbilanciata dalla chiacchiera di Winnie. L'innesto del tema principe dell'immobilità, del mancato movimento, del movimento senza movimento o del movimento strisciante combinato al corredo scenico (dal paralume alla rivoltella, dallo spazzolino al giornale, il campanello con i suoi rintocchi) fanno di quest'opera una quasi icona, icona fossile per l'appunto. Sicuramente ci sono ampi margini per letture diverse, che partano magari anche dall'atto di masturbazione di Willie o dalla totale copertura dei genitali di Winnie sepolta (nel secondo atto la copertura del monticello arriva fino al collo, ha quindi coperto pure il suo seno). Ma non è questo, a mio avviso, il più grande portato dell'opera. Come tutti i fossili, Winnie e Willie ci danno indizi, ci raccontano non una ma molte storie, sul tempo, sul clima, sul dramma che hanno vissuto, sulla loro parziale decomposizione e quindi su una morte che in parte è già avvenuta. Dobbiamo saperli ascoltare e analizzare con pazienza. Affermare che l'uomo moderno nel teatro beckettiano è come un fossile significa anche sottrarlo dalla tragedia del tempo, sollevarlo dalla potente lacerazione che ha sperimentato sul suo corpo ("ho male al collo", afferma spesso Winnie). 


[...] Una volta credevo... (pausa)... dico che una volta credevo che non ci fosse nessuna differenza tra una frazione di secondo e la successiva. (Pausa). Una volta dicevo... (pausa)... dico che una volta dicevo, Winnie, tu sei immutabile, non c'è mai la minima differenza tra una frazione di secondo e la successiva. (Pausa). Perché ritiro fuori questa storia? (Pausa). C'è così poco che si possa tirar fuori, che si tira fuori tutto. (Pausa). Tutto quel che si può. (Pausa). Mi fa male il collo. (Pausa. Con improvvisa violenza) Mi fa male il collo! (Pausa). Ah, così va meglio. (Con leggera irritazione) Ci sono dei limiti. (Lunga pausa). [...]

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