venerdì 28 aprile 2017

«Il festino degli dèi» di Giovanni Bellini. Lo studio di Edgar Wind proposto da Abscondita

Parentesi all'inizio: per chi lo vuole, a palazzo Sarcinelli a Conegliano, è in corso fino al 18 giugno 2017 una bella mostra intitolata "Bellini e i belliniani. Dall'Accademia dei Concordi di Rovigo" a cura di Giandomenico Romanelli. Fuori parentesi, in aggiunta: non serve seguire i sogni di grandeur della vicina cugina Treviso, fossilizzata da decenni sull'impressionismo in virtù di una passata mostra di grande successo commerciale, per continuare a proporre una serie di mostre sensate, variegate, ben architettate e non disertate dal pubblico e prova ne sia l'attività espositiva coneglianese (molto bella e sorprendente è stata anche la mostra sui Vivarini). Certo, diverse saranno le risorse e le aspettative di flusso di pubblico generato sulle due città, ovvero la cosiddetta ricaduta sul turismo, ma ad ogni modo è proprio il caso di dire che staremo a vedere sul lungo periodo che succede (e comunque a Treviso tra poco arrivano gli Alpini e saranno pieni per un po', per cui il consiglio è lasciar perdere gli impressionisti per i belliniani, almeno in quei giorni della adunata nazionale). Il cinquecentenario della morte di Giovanni Bellini era lo scorso anno. Forse per queste concomitanze o forse no, Abscondita manda in libreria la traduzione de «Il festino degli dèi» di Giovanni Bellini dello studioso Edgar Wind (pp. 144, a cura di Rossella Rizzo, con una ricca appendice iconografica). Il libro raccoglie testi dedicati a questa singolare opera belliniana (quasi un hapax nella sua produzione) dallo storico dell'arte tedesco, attento analista dei misteri pagani nel Rinascimento, inteso come epoca di unità di arti visive e letteratura. I saggi qui raccolti si concentrano appunto su un'opera tarda e tra le più enigmatiche dell'artista veneziano, il quale dipinse con grande ritrosia e ritardi questo quadro originariamente destinato allo studiolo ferrarese di Isabella d'Este.


Wind (Berlino, 1900 – Londra, 1971) apparteneva alla gloriosa scuola warburghiana e fu allievo di Erwin Panofsky, cioè di colui che con Warburg e Saxl rivoluzionò il modo di fare storia dell'arte. Il suo interesse per quest'opera tardiva del Bellini è ben comprensibile se consideriamo la componente pagana delle sue ricerche allegoriche e mitologiche, suggellate nel libro del 1958 Pagan Mysteries in the Renaissance, tradotto in italiano da Adelphi nell'anno della sua morte. Il punto, con le opere d'arte in generale e quelle del Rinascimento in particolar modo è sempre quello: come leggere queste opere senza poter ricostruire i rimandi al pensiero, all'iconologia e agli impliciti filosofici e letterari che le presupponevano? Come poter leggere insomma certe opere separando arti visive e letteratura o arti visive e filosofia? Come avvicinarsi ad alcune di queste senza considerare il neoplatonismo rinascimentale, la tradizione ermetica, il ritorno d'interesse per i misteri del paganesimo? Le conferenze qui radunate partono nel 1944 e solo quattro anni trovano collocazione nel volume intitolato Bellini's Feast of the Gods. A Study in Venetian Humanism. Il fulcro del ragionamento di Wind consiste nell'osservare che il dipinto di Bellini, che fu verosimilmente ritoccato da Tiziano e da Dosso Dossi (soprattutto nel fondo boscoso e nel fagiano appollaiato sull'albero) e consegnato ad Alfonso d'Este nel 1514, restituisce la fantasia pagana di Isabella per la propria "grotta" o studiolo. Wind di sofferma soprattutto sul ruolo centrale di Pietro Bembo quale ambasciatore e sollecitatore presso il Bellini nel compimento di quest'opera che rimane comunque controversa, sia nella sua storia (è noto come Bellini non fosse molto attivo su temi mitologici, sui quali invece primeggiava Mantegna), sia nella sua ricezione. Il soggetto dell'opera si lega ai Fasti di Ovidio e il dipinto, che attualmente è conservato nella National Gallery of Art di Washington, dimostra ancora una volta come la storia dell'arte sia una disciplina privilegiata per entrare e uscire dagli immaginari sui quali si sono stratificate le visioni dei secoli successivi. Le debolezze degli dei, ripresi stanchi in una scena con un forte sentore di ubriachezza, permangono tra i colori di questa affollata ammucchiata campestre. E lo studio di Wind è un monito a riconsiderare la collocazione di quest'opera tra le altre parimenti celebri che finirono nei camerini ferraresi di Alfonso e Isabella. In tal senso la già citata ricca appendice è uno strumento di grande aiuto e suggestione.

(Per un'ulteriore analisi del dipinto belliniano, nel quale si registrano fra l'altro, per la prima volta, gli usi di pigmenti di orpimento e realgar, si rinvia a questa interessante pagina del sito "Colourlex".)

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