venerdì 10 marzo 2017

7x7 con Cristina Alziati: "Come non piangenti" in una lettura di Alessandra Conte (quarta puntata)


7x7 è una rubrica articolata in regolari uscite metrico-stilistiche nell'arco di sette venerdì e dedicate ad un libro. Come non piangenti è il libro di poesia di Cristina Alziati, pubblicato da Marcos y Marcos nel 2011 nella collana Gli Alianti, per il quale è stata scelta l'immagine emblema del Vergesslicher Engel di Paul Klee. Le analisi sono tratte da un più ampio studio di Alessandra Conte, dedicato a Cnp nel 2014.



“Rendetemi il mio ben” canticchierà
allacciata alle bocce della chemio,
insieme con Orfeo; ma ciclo
dopo ciclo si sfarà quel canto,
e il sole e gli inferi. A riveder le stelle
- gli dirà - trarre tocca sé seco.
Resta dov’è, Euridice. Ogni cosa
davvero succede, per sempre.




Il testo introduttivo della sezione I riccioli della chemio si apre con l’Orfeo di Monteverdi. La poesia, essendo tutta un corsivo, sembrerebbe citazione unica essa stessa, dove una delle citazioni nella citazione (al quadrato e, poi, al cubo) è riportata tra virgolette. È così che si apre la parte più intrisa di biografia e dedicata alla malattia, ricorrendo – verrebbe da pensare – alle altrui parole, visto che, subito dopo, il testo intitolato con il numero 1 della serie di otto è costituito da una domanda volta proprio a chiedere come e per quale voce si possa raccontare quest’esperienza. Dunque l’inizio del racconto è segnato con una annotazione musicale preliminare che introduce il quadro entro cui si dispiegherà tale voce, e l’aria di Orfeo evocata ne evidenzia la carica di canto nel canto. Il titolo contiene i nuclei sonori ( /ʧ/ e /k/ ) da cui sembrerebbe sdipanarsi quasi ogni verso del corsivo, sorta di epigrafe in contrappunto con quella infernale sottesa – tra l’Ade monteverdiano e l’Inferno dantesco. Il quadro è chiaro, ma emerge anche una certa ariosità nei dettagli, un tono leggermente scanzonato a far da contrappeso ai monumenti e alla densità. I riccioli stessi, al posto dei comuni ricci, potrebbero richiamare l’immagine di tirabaci civettuoli, se non fossero accostati alla chemio, dissonante slang del quotidiano di chi ha a che fare con la malattia. L’Alziati comincia il primo verso, endecasillabo tronco frazionabile in due unità metriche tradizionali (un settenario ed un quinario entrambi tronchi), canticchiando (anche qui la leggerezza) Monteverdi: è possibile canticchiare un mostro sacro della vocalità? No, infatti: subito, al verso successivo, nella stessa posizione finale ricorre a richiamo la parola chemio. Si scorgono le bocce della chemio a cui la protagonista è allacciata, nel secondo verso, anch’esso endecasillabo, il quale gioca sui ritorni fonici della coppia formata dal suono /ʧ/ geminato, preceduto dal nucleo -ll-  che ricorre quasi con regolarità anaforica nel verso («aLLaCCiata aLLe boCCe deLLa chemio»). La costruzione di questa prima immagine si presta ad alcune osservazioni d’ambito fonico-ritmico. Come già detto, il primo verso risulta scomponibile in due parti, non solo in quanto a classificazione versale, ma anche ritmica, poiché esse – considerando la sequenza degli accenti principali – costituiscono due membri speculari, o un’unità ritmicamente eseguibile sia da destra che da sinistra, in cui l’inizio acefalo in levare è compensato e completato dall’esito tronco del verso. La citazione iniziale tra virgolette permette di rilevare un impercettibile gioco di catena sonora che si estende a legare le parole contigue nell’arco, poi, di tutto il primo semiperiodo concluso dalla pausa medio-forte del punto e virgola. I suoni /n/ e /m/ sono disposti tra le unità verbali a figura di chiasmo sonoro, all’interno del quale si ripete allitterante la sillaba -mi-, quasi a sottolineare la prima persona singolare («“ReNdeteMI il MIo beN” caNticchierà»). La catena si lega tramite la consonante /n/  di beN a caNticchierà, che contiene sia il suono /k/ della parola chemio – ricorrente anche nel titolo, oltre che nella stessa posizione finale al v.2 – che la vocale /a/, sottolineata in quanto ultimo suono della parola ossitona a chiusura del verso, e input nello sviluppo fonico del verso successivo, che si delinea tripartito per suono e ritmo. L’endecasillabo al v. 2 si può suddividere nelle seguenti frazioni isoritmiche: «allacciata-alle bocce-della chemio», che presentano la stessa sequenza di tempi vuoti organizzati attorno all’accento principale ( / - / - / ). I suoni concordano nella tripartizione, in cui ricorre, come già notato in precedenza, il suono /l/ geminato che si divide tra i primi due tempi deboli. Il verso sembra esplicarsi come un canto che si espanda tramite la vocale centrale di massima apertura tra i primi due membri, chiudendo la parabola al terzo, con lieve arretramento e chiusura con i suoni /k/ e /ɛ/.  Da qui il raccordo tra i vv. 2-3 si attua con un altro chiasmo sonoro tra «CHeMio / insieMe Con Orfeo» (in cui, tra l’altro, la prima parte del v. 3 chiusa da punto e virgola è un settenario). I versi appena analizzati trattano dell’autrice o del ricordo dell’immagine di lei al futuro, un tempo che qui si colora di epicità, che narra però un’esperienza conclusa ma compresente, in quanto visione del tempo passato. L’autrice è insieme ad Orfeo ed è Orfeo, il canto stesso portato nell’Averno. E quell’allacciata risuona amoroso e scanzonato, quanto mai fuori luogo o “luogo fuori”, oltre la disperazione. Ed infatti non è un canticchiare quello di Alziati e Orfeo, è un vero canto, materico e legato anche alla fisicità del corpo, destinato però a sfaldarsi nel tempo del percorso infernale che si definisce con la ripetizione della ciclicità, pur spezzata in enjambement («ciclo / dopo ciclo»), sembrando eterno, e al cui destino si aggiungeranno lapidariamente in polisindeto «e il sole e gli inferi» (un quinario sdrucciolo); traducendo: luce e buio, cieli e terra, mancanza di prospettive anche come polarità in positivo o in negativo, ossia morte in vita. Così l’autrice come Orfeo manifesta la propria condizione psicologica di morte in vita legata alla perdita di se stessa, o almeno di una parte, come Orfeo della persona amata e che per questo si è addentrato nel buio dell’oltretomba. Non casualmente nell’avversativa, fino alla virgola al v. 4, si frange temporaneamente la regolarità precedente, pur essendoci legame interno tramite la ricorrenza sonora di /ʧ/, /k/ e l’allitterazione col suono /s/ («ma CiKlo / dopo CiKlo Si Sfarà quel Kanto»). Fino a qui la citazione del frammento dal libretto dell’Orfeo suggerisce implicitamente la presenza dantesca: il sottotesto utilizza per alcune parti lo stesso metro della Commedia, da cui derivano anche il modello della guida del viaggio agli inferi (Orfeo è accompagnato fino ad un certo punto da Speranza) e l’ammonimento scolpito sulla soglia dell’Ade («Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate», in Inf. Canto III, v. 9). La presenza si fa esplicita nella sentenza elegantemente articolata tra i versi 5-6 che – accanto alla figura dell’inversione e alla forma del latinismo, quasi figura etimologica, allitterante con il pronome personale – include nel montaggio un frammento ed un verbo dantesco, trarre, e che recita «A riveder le stelle / […] trarre tocca sé seco.» (Inf. Canto XXXIV, v.139); dove le due componenti dell’enunciazione si configurano, intervallate e spezzate dall’inserto parentetico gli dirà, come due settenari. Si tratta dell’ultimo verso dell’Inferno, ed il punto fermo, l’unico dei quattro che ricorra in coincidenza con la fine del verso - oltre a quello posto in chiusura del testo - sembra proporre una pausa più lunga, suggerisce l’impressione di ulteriore silenzio rispetto agli altri. E se non ci sono ulteriori personaggi ad accompagnare l’Alziati nel viaggio metamorfico di morte e rinascita, Speranza però aleggia: qui l’autrice sdoppiata si triplica interpretando Euridice – quella parte di sè che non potrà ritornare alla luce dopo l’esperienza – ammonendo Orfeo / Alziati (che invece riuscirà a praticare il viaggio iniziatico) con verbo dantesco (trarre) che, pur con gran fatica, è possibile uscire dall’inferno (sebbene non nominato con parola comune, richiama in paronomasia l’inverno della poesia successiva, metafora della malattia e della trasformazione) e allegoricamente contemplare di nuovo il cielo – ancora notturno ma stellato – presagio di luce e “pura felicità dello sguardo”[1]. Il verbo indica la fatica di imprimere movimento – con la forza fisica o con impulso interiore – a qualcosa o qualcuno tirandoselo dietro come uno strascico. «Dal concetto di trazione si sviluppa l’idea del “condurre”, del “guidare”, “del portare da un luogo ad un altro”, […] nel verbo è spesso implicita la nozione che lo spostamento avvenga con stento, con sforzo, se non addirittura “a forza”. In questo senso, trarre ricorre di frequente con riferimento al compito di guida svolto da Virgilio in favore di Dante; è anzi significativo che il verbo compaia in connessione con i tre momenti centrali del viaggio dantesco: l'uscita dalla selva (If I 114 «sarò tua guida / e trarrotti di qui per loco etterno»), l'incontro con Catone (Pg I 67 «Com' io l'ho tratto, saria lungo a dirti»), l'arrivo nel Paradiso terrestre (XXVII 130 «Tratto t'ho qui con ingegno e con arte»; e si vedano inoltre If VI 40, Pg III 6, V 86, IX 107, XXIII 124). Per ulteriore determinazione semantica, inoltre, contiene l’idea del “portar via”»[2]: quindi, date le suggestioni appena esposte, per salvarsi occorrerebbe portarsi fuori dagli inferi da sé. E allora si ripensa al titolo del libro e al tempo che si è fatto breve, alla chiamata di responsabilità, a vivere quello che rimane e ad attraversare la vita – qualunque siano le condizioni – come i maestri delle tre Tracce suggeriscono all’interno del libro. E ciò viene detto con voci d’uso letterario alto e allitterante, come segno di poeticità, curando la compositio dei suoni, creando omofonia interna tra le parole contigue. L’aria / recitativo si chiude con uno sguardo ampio, nell’immobilità dei tempi compresenti nel per sempre, con un’Euridice che resta dov’è («Resta dov’è, Euridice» – un ulteriore settenario), e una constatazione, che ogni cosa (l’ogni cosa da fermare tramite la scrittura) succede veramente, in una realtà che stabilizza gli accadimenti come impossibili da cancellare («Ogni cosa / davvero succede, per sempre.»). 




[1] BIANCA GARAVELLI (a cura di), in Dante Alighieri, Inferno, Bompiani, Milano 1993, p. 501.
[2] ALESSANDRO NICCOLI, “Trarre”, in Enciclopedia Dantesca, 1970, http://www.treccani.it/enciclopedia/trarre_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

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