mercoledì 16 novembre 2016

Il manuale di Epitteto tradotto da Giacomo Leopardi (e qualche nota editoriale)

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #33
Covertures #13


Il Manuale di Epitteto, redatto in realtà dall'allievo Arriano di Nicomedia, ebbe a partire dal Cinquecento rinnovata fortuna fino ai giorni nostri e prova ne siano le diverse edizioni in commercio, qua rappresentate anche dalle loro copertine (manca l'edizione della collana Piccola Biblioteca Einaudi curata da Pierre Hadot e quella di Garzanti dei Grandi Libri). Quando il manuale, nell'autunno del 1825, incontrò l'intento traduttorio di Giacomo Leopardi durante il suo soggiorno bolognese, non era insomma opera dimenticata e il lettore colto poteva disporre di una manciata di traduzioni e pure della versione latina curata da Angelo Poliziano (sia detto per inciso che l'edizione Garzanti del Manuale propone sia il testo leopardiano che la versione latina del Poliziano). Leopardi, che con l'editore milanese Stella stava provando a progettare in quel tempo una serie di libri dal formato contenuto che proponessero le principali opere dei moralisti greci e altre iniziative editoriali che dovevano, almeno negli intenti, contribuire al suo mantenimento economico, lavorò sul testo greco per un paio settimane e consegnò il manoscritto della traduzione all'editore senza tenere copia per sé. Non vide mai pubblicata l'opera, che fu stampata soltanto dopo la sua morte nell'edizione delle opere curata dal Ranieri. Si tratta di una traduzione che tenne per sempre molto cara e che a più riprese provò a far pubblicare senza successo. Il periodo bolognese-milanese del poeta coincideva con l'inizio della stesura della sua opera capitale, le Operette morali, le quali videro la prima edizione non lontana dalla ventisettana de I promessi sposi e quindi varie edizioni successive.

Dopo il "Preambolo del volgarizzatore", laddove Leopardi riduce la dimensione eroica dei potenziali destinatari dell'opera, così attacca la traduzione del Manuale del filosofo stoico Epitteto:
Le cose sono di due maniere; alcune in potere nostro, altre no. Sono in potere nostro la opinione, il movimento dell'animo, l'appetizione, l'aversione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri propri atti.
Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui.
Si tratta di una distinzione fondamentale, su cui è ancorato tutto il resto del discorso dello stoico. Quel che interessa oggi, al di là di tutti i ragionamenti che leopardisti, critici illustri e divulgatori hanno già prodotto, è un grumo di riflessioni che si possono fare e che partono e arrivano a questo Manuale: si può affermare che Leopardi è autore di una prima versione in italiano moderno del "libricciuolo", lo traduce in appena un paio di settimane in un momento centrale della propria riflessione filosofica, non ne violenta la natura e non trasforma Epitteto in uno dei propri precursori rifacendosi, in qualche modo, alla massima che ogni autore "crea" i propri precursori; sarebbe troppo limitante traslare questa massima anche in terreno leopardiano, tanto imponente è infatti l'arcata di ponte che Leopardi getta tra due epoche. (In realtà, sulla chiave di lettura "attualizzante" del Manuale fornita dal recanatese il dibattito non è unanime,  mentre è quasi unanime l'apprezzamento della lingua scelta da Leopardi per la traduzione.) Inoltre, cosa non da poco, Giacomo Leopardi cala in Epitteto, in quattro operette morali di Isocrate e in altre traduzioni soltanto ipotizzate un progetto editoriale che mai vide la luce e che tuttavia sarebbe interessante provare a ripercorrere e ricostruire. Molte sono le ragioni per cui tutto naufragò e non ultima va considerata l'urticante scomodità politica del pensiero leopardiano. Tuttavia ci sono le premesse per poter parlare o tornare a parlare anche di un certo pensiero pratico-editoriale di Leopardi o, se non altro, di un suo rapporto con l'atto del pubblicare (verbo che oggi assume connotati sempre cangianti). Anche quando consegna al mondo la propria opera più sconvolgente camuffata dal diminutivo del titolo, le Operette morali, viene da chiedersi se Leopardi riponga nel meccanismo dialogico, così preponderante in questo libro, la possibilità di aggirare certi meccanismi censorei che difficilmente forse avrebbe superato.

Molto interessante è quindi lo studio di Leopardi anche alla luce dei suoi rapporti editoriali mentre era in vita, così come spesso è interessante compiere simile analisi con altri autori (si è già parlato in termini analoghi per Manganelli). Oggi non abbiamo bisogno di sforzarci per trovare la sua traduzione da Epitteto, che potete scaricare come PDF qui, oppure acquistare nei volumi rappresentati in foto (dall'alto: Salerno editrice, SE, Bur e a voi giudicare le copertine più riuscite e quella davvero fuori centro...). Ci si è chiesti se la sua versione deviasse in qualche modo l'interpretazione "giusta" di questo classico collocato in un'epoca di apparente fine della filosofia, eppure i precetti di Epitteto raccolti da Arriano e tradotti, fra molti altri, anche da Giacomo Leopardi stanno lì a raccontarci anche dell'incalcolabile destino dei libri e dei classici. Per ricordare un'altra celebre versione, il Manuale fu tradotto anche dal gesuita Matteo Ricci come libro di mediazione (più che di meditazione) nel proprio viaggio cinese e titolato Il libro dei 25 paragrafi. Sono tanti oggi i libri sulla saggezza, sui precetti, sulla sapienza, quasi un genere editoriale a sé in grado di attrarre lettori anagraficamente diversi. Eppure in questo "libricciuolo" contenente i precetti di Epitteto possiamo riscontrare un andirivieni del destino che ci parla da vicino dei classici, del loro essere tutt'altro che libri immutabili e dati una volta per tutte. Il lascito di Leopardi allora sta anche nell'intendere questa non immutabilità del classico che ha goduto di molta fortuna.
Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentar bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro.
Anche in un passo come questo sopra riportato - siamo nel secondo secolo dopo Cristo - si nota l'inversione di una concezione radicata: il teatro che passa da mimesi della vita a paradigma della conoscenza. Si tratta di uno dei tanti motivi di interesse per l'Enchiridion di questo ennesimo schiavo frigio a cui dobbiamo molto (un altro era Esopo). Oggi, se dovessi indicare una direzione su cui questo testo è più che mai attivo, indicherei la questione del narcisismo; anche quell'incipit sopra riportato spedisce diritto a una quantomai opportuna distinzione tra io e non-io e a una feconda delimitazione della prima persona, soprattutto in senso morale. In questo riesce il Manuale, pur non accennando ad alcuna divinità e in questo riesce anche il ridimensionamento eroico del Leopardi-editore:
Io per verità sono di opinione che la pratica filosofica che qui s'insegna, sia, se non sola tra le altre, almeno più delle altre profittevole nell'uso della vita umana, più accomodata all'uomo, e specialmente agli animi di natura o d'abito non eroici, né molto forti, ma temperati e forniti di mediocre fortezza, o vero eziandio deboli, e però agli uomini moderni ancora più che agli antichi. (dal "Preambolo del volgarizzatore")

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