mercoledì 5 ottobre 2016

"Ritornerai a Región" di Juan Benet. La postfazione di Elide Pittarello al libro pubblicato da Amos Edizioni

Lo scorso anno, uno dei "casi" più strani e belli, proprio nel senso dell'avventura dell'impresa editoriale di proporlo, credo sia stato Ritornerai a Región di Juan Benet (Amos Edizioni, pp. 480, euro 20, traduzione di Sebastiano Gatto con la collaborazione di Piero Dal Bon, postfazione di Elide Pittarello). Mi fa piacere trovare un modo inedito per continuare a parlarne a distanza di molti mesi dalla pubblicazione (uscì in estate), perché quasi mai l'attualità libraria è un fenomeno simpatico, anzi, direi che proprio non lo è. Quindi ben venga anche lo scoppio ritardato. Pare che ogni Novecento nazionale abbia avuto il suo "ingegnere" e Benet fa il portabandiera per la letteratura spagnola, visto che spesso troverete riferimenti a lui in questo senso. Il solo altro titolo che trovate oggi disponibile in italiano si trova nel catalogo Adelphi (Nella penombra, romanzo del 1989 pubblicato da noi nel 1991). Volverás a Región comparve nel 1967 e abbastanza presto si trovò a sconvolgere le aspettative "medie" sul romanzo sociale di quel paese neutrale in due conflitti mondiali eppure così frantumato, prima dalla Guerra Civile e poi dal franchismo. Libro complesso, di lettura (e traduzione) non facile, per non dire estremamente ardua, Ritornerai a Región è meglio introdotto dalle parole di Elide Pittarello, docente di Letteratura spagnola a Ca' Foscari di Venezia, autrice della postfazione del verde libro ritratto qui sopra. Ringrazio lei e Michele Toniolo per questa concessione. 

(Pubblico nel post la prima parte del testo e il saggio intero come file *.pdf disponibile per il download a questo link.)


Juan Benet (Madrid 1927 - Madrid 1993)
Juan Benet: «Scrivo perché non so esporre le cose»
di Elide Pittarello


Dalla storia al romanzo

Poco noto al pubblico italiano, Juan Benet (Madrid, 1927-1993) rappresenta un caso unico nel panorama letterario del ’900 spagnolo. Senza precursori né epigoni, questo autore dominava due tipi di saperi contrapposti. Come ingegnere civile costruì importanti opere pubbliche e come umanista coltivò intensamente sia la scrittura creativa che quella saggistica. Amava molto la musica, che considerava la più perfetta delle arti, e si dilettava di pittura.
Radicale antifranchista, nel campo dell’estetica Juan Benet non ebbe alcuna indulgenza verso le buone intenzioni dei suoi amici marxisti. Disdegnava le avanguardie, ma detestava soprattutto il realismo, di qualsiasi epoca e specie. E tuttavia la sua narrativa affronta un tema storico per eccellenza: la guerra civile che nel XX secolo segnò tragicamente il destino del suo paese e la sua stessa vita. A pochi giorni dal 18 luglio del 1936, suo padre venne ucciso, ma per volontà della madre Juan Benet ne venne informato solo a guerra finita. Sempre evasivo quando si trattava della sua biografia, l’autore rilasciava in proposito scarne dichiarazioni, del tipo:
«Vissi la guerra fra i 9 e i 12 anni, epoca molto significativa, molto plastica, in cui si impara molto: entra tutto dagli occhi e resta in forma definitiva. Mi toccò vivere in tutti e due i bandi a causa di vicissitudini familiari...»1.

Centinaia di migliaia di morti e di esiliati, quasi quarant’anni di dittatura: oltre alle conseguenze individuali, queste le conseguenze collettive di un evento che è il referente di vari racconti e di tutti i romanzi di Juan Benet, ad eccezione dell’ultimo2. Ma a nessuno verrebbe in mente di definirli romanzi storici, nemmeno da un punto di vista postmoderno. Non solo manca l’intenzione di innestare, in modo più o meno verosimile, parti immaginarie in uno spaccato di realtà nota, ma quasi non si nominano i protagonisti politici, le bat-taglie significative, le date cruciali. Sporadico anche il rovello meta-discorsivo che, nel ’900, ha caratterizzato in modo plateale tante polemiche riscritture della storia in chiave romanzesca3.
Juan Benet preferisce invece polverizzare le corrispondenze fra res gestae e historia rerum gestarum, assemblando voci incon-gruenti che, contro ogni effetto di verosimiglianza mimetica, signifi-cano anche per ciò che non dicono4. Tale bricolage enunciativo comporta squarci referenziali e lacerazioni epistemologiche che turbano profondamente il significato del racconto letterario, tanto più se questo è basato sulla storia, che è già una costruzione discorsiva del passato. Ma era proprio quanto Juan Benet si proponeva di ottenere, combinando strategie narrative diverse per disgregare senza alcuna intenzione di ricostruire5. Tutte insieme mirano infatti a rappresentare campionature di incompetenza diegetica. È un difetto che l’autore empirico attribuisce di proposito non solo ai personaggi dei suoi romanzi, ma anche ai narratori onniscienti laddove esi-stano, e perfino a se stesso. Disse un giorno in una intervista con-cessa con l’abituale atteggiamento provocatorio: «Perché diavolo il narratore deve sapere tutto ciò che narra?»6.
Per essere libero da ogni positivismo, l’autore si inventò anche un proprio territorio, topograficamente marginale, in cui contrappose due minuscoli centri urbani: Región, schierato dalla parte legittima dei repubblicani, e Macerta, allineato con la parte ribelle dei nazionalisti. Una guerra civile – che ha per obiettivo la conquista dello Stato – si combatte, infatti, laddove ci sia una città da conquistare7. Con una localizzazione che non ammette verifiche né falsificazioni, l’intero conflitto fratricida che per tre anni coinvolse tutta la Spagna e molti paesi dell’Occidente viene dunque ridotto a qualche scontro sporadico, in un’aspra e remota zona montuosa. Una simile a quella che, nella realtà, Juan Benet modificava con successo, grazie ai suoi interventi di ingegnere. Ma questa, frutto della sua immaginazione, ha invece una natura così ostile e possente da far fallire ogni tentativo di modernizzazione tecnologica. Chi vi abita è solo un superstite. Miniere abbandonate, campi rinsecchiti, villaggi in gran parte deserti, due cittadine fantasma: i guasti della civiltà in declino finiscono per somigliare alle rozzezze di un insediamento primordiale. Nella cronologia si insinua una dimensione temporale estranea agli affanni di chi altrove insegue il progresso.
In un luogo tanto arcaico perché fortemente decaduto, anche l’azione bellica si sviluppa secondo un calendario anacronistico, con prospettive e aspettative molto diverse da quelle che tutti conosco-no. Il minuscolo conflitto raccontato da Juan Benet non è sospeso in quello strato vaporoso che, secondo Nietzsche, fa germinare vitalisticamente la storia futura8; piuttosto esso giace «dormiente nella fo-resta del non-événementiel»9. I fatti che lo riguardano non sono eventi, poiché esulano da intrecci referenziali già documentati e concettualizzati10. Una oscura relazione fra obiettivi spuri e mezzi improvvisati rende la guerra civile di Región trascurabile e inefficace.


Cosa resta alla letteratura

Tale scelta da parte dell’autore è consapevolmente legata allo stato del sapere contemporaneo. Una volta riconosciute le funzioni egemoni del pensiero scientifico nelle sue varie e sempre più estese applicazioni tecnologico-scientifiche, Juan Benet era convinto che alla letteratura rimanesse un campo più ristretto che in passato, ma anche più inventivo. Tramontata l’idea di una filosofia generale della storia, ridotta la verità a prodotto condiviso della volontà di potenza, assimilata la teoria della conoscenza alla teoria dell’azione, per Juan Benet anche la macchina tradizionale della diegesi doveva essere archiviata. Il romanziere del ’900 non sarebbe più stato un demiurgo. E dunque, a partire da questo rifiuto del ruolo di agente o motore supremo dell’opera d’arte da inventare come un tutto compiuto, Juan Benet decide di rendere le proprie creazioni inspiegabili. Disattende il principio di causalità e occulta ogni intenzione teleologica11, nel rispetto di quello che egli stesso definì un imperativo cartesiano, e cioè che «la letteratura non sarà mai scienza. Non deve essere informativa»12.
Ne dette prova applicando il suo piano decostruttivo a una ma-teria di cui in Spagna tutti erano a conoscenza e che segnò il falli-mento della politica, ma non solo. La guerra civile, che Platone de-finì «la più dura di tutte le guerre»13, è stata un evento storico di una violenza così radicale da far precipitare i valori e le categorie di giudizio di un secolo che si era già aperto all’insegna della crisi14. Non a caso, delle innumerevoli interpretazioni che si sono accavallate dalla fine del conflitto a oggi, nessuna è apparsa soddisfacente e meno che mai esaustiva. Anzi, scriveva l’autore:

«Aveva ragione il generale Duval, la guerra civile tende a diventare inintelligibile. La hegeliana marcia dello spirito e della ragione lungo il corso della storia è dimostrabile solo quando è la ragione – e una ragione palmare e scritta – ciò che muove i muscoli del maratoneta. Quando li muovono impulsi occulti – come l’avarizia, l’incompetenza, l’ambizione, la mancanza di coraggio – tende a diventare inintelligibile e dunque investigabile. Si potrebbe dire, tardivamente e inutilmente investigabile»15.

Nel suo insieme, quel conflitto già molto verbalizzato sembra irriducibile a un tipo di discorso univoco, perché ha sconvolto tutta la gerarchia delle relazioni che fondano la conoscenza e orientano la condotta degli uomini: dai principi dello Stato ai legami personali più elementari. Come ricordava Juan Benet per esperienza diretta, la guerra civile spagnola aveva reso nemici non solo i cittadini dello stesso paese, ma spesso anche i membri di una stessa famiglia. Una follia incontenibile che dette avvio a brutali forme di abiura, sconfessione e tradimento.
Oltrepassata ogni legge o misura che distingue la civiltà dal suo contrario, nello scenario insensato della guerra civile la morte irrompe allora come crudeltà incomprensibile e irreparabile. È questa la materia del tragico per eccellenza e lo scrittore spagnolo ne fece il tema ricorrente della sua narrativa, con la precisa intenzione di non spiegare e di non generalizzare. Da romanziere voleva dire proprio ciò che è interdetto a qualunque scienza, perché tracciò nel fenomeno inconoscibile della morte lo spartiacque fra la letteratura e tutto il resto del sapere nato con il logos. La ragione che, con la se-lezione operata dai suoi quadri concettuali, pone in anticipo ciò che finge di domandare, è inadatta a operare su ciò che esula, per principio, dal campo delle sue applicazioni. Mentre il discorso della scienza si preoccupa di trasmettere la memoria dell’uomo attraverso idee durature e comuni, per Juan Benet il discorso della letteratura deve invece guardare agli aspetti effimeri e accessori della vita:

«Ciò che è trasmissibile e comune conta poco per lei e il suo tema preferito è tutto quello che muore con il soggetto specifico della sua narrazione e che, di conseguenza, non si ripeterà più. Non solo trae il massimo vantaggio dalla morte, ma senza la condizione della finitezza il soggetto sarebbe così poco interessante da lasciarla senza oggetto, priva della funzione memorialistica. Così dunque la morte è la frontiera che separa la letteratura dal pensiero; una frontiera e una valvola»16.

Prendendo come termine di confronto e di esclusione tutto ciò che forma l’organizzazione concettuale della doxa, la letteratura seziona altrimenti il continuum dell’esperienza, inventando un racconto figurato, impreciso e reticente. Ne risultano testi fatti di scarti e ritagli che, per la loro costitutiva ambiguità, danno il colpo di grazia alla tradizione epica occidentale, con il suo corollario di norme esemplari che tanta importanza hanno avuto nella formazione del romanzo. Il congedo dalla ragione, infatti, comporta anche il naufragio della morale. Al contrario di Hegel che ricavava dall’azione rappresentata artisticamente l’identità dell’eroe, sempre legata a un ideale socialmente utile, Juan Benet volge lo sguardo al mondo del-la materia, riservando alla letteratura il compito di narrare ciò che di ogni individuo si perde per il solo fatto di essere vivo:

«Dell’eroe preferisce segnalare gli occhi grigi, i modi delicati, la nostalgia di un’esistenza più innocente. Forse i fatti che fondarono la sua gloria sono ciò che meno interessa. Indubbiamente tali fatti – registrati da una memoria immortale – sono sorti in seguito a certe circostanze e a certe condizioni che, marchiate dall’effimero, nessuno salvo il poeta si preoccuperà di rendere eterne. Per questo il suo è uno sforzo supplementare, una selezione di ciò che non si è notato, un interesse per l’accessorio, un’attenzione verso oggetti diversi da quelli della storia e – soprattutto – l’artificio con cui l’uomo più consapevole, incapace di sottrarsi al mondo dell’errore e della finitezza, elude la tentazione della verità mediante la sottomissione a ciò che muore»17.

Spazzata via la questione della verità, perfino nell’accezione pragmatica del nostro tempo, si scolora anche la volontà di potenza indispensabile ad abitare la terra. A Juan Benet interessa non la vita attiva, ma la contemplazione oltremondana, perché il suo orizzonte metafisico è determinato dall’enigma del transito. Accelerato e anticipato dalla catastrofe della guerra civile, il fenomeno della morte, di fronte alla quale non ci sono che vinti, segna l’angosciosa congiunzione/disgiunzione fra ciò che appare e ciò che non ha evidenza. Nasce qui, ai confini del sacro che è fondamentalmente silenzio, il suo testo letterario: presso la frontiera dell’essere che si definisce in quanto limite o carenza18 e di cui non si può dire che attraverso af-fabulazioni senza fondamento.
Se già la storia, osservava Paul Veyne, «può permettersi di essere lacunosa de jure. La verità è che essa non è un tessuto, e non ha ordito alcuno»19, non sorprende che la narrativa di Juan Benet, che parte dalla storia solo come evidenza oggettiva di avvenimenti da smontare, appaia una sorta di vanitas sfilacciata e imprevedibile. Aggiungeva l’autore che «l’arte letteraria non pretende in nessun momento di separarsi dal destino dell’uomo; non pretende di conoscerlo, nel senso scientifico»20. Solidale con una natura che tragicamente non cessa di fare e disfare, la parola letteraria narra le derive para-dossali della creatura abbandonata21.

Per questo i suoi romanzi, pieni di viaggiatori che subiscono ogni genere di scacchi, non si svolgono in maniera lineare. La letteratura, diceva l’autore con malizia etimologica, è «diversión», vale a dire un divertimento, un diversivo, ma anche – aggiungiamo, ricordando le accezioni latine di «divertere» e «devertere» – un volgersi altrove. Dal verso o «senso» della ragione si esce divagando.


(Potete scaricare l'intero saggio di Elide Pittarello come *.pdf a questo link.)

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