martedì 13 settembre 2016

La risposta di Matteo Campagnoli di Babel Festival

Pubblico di seguito la risposta di Matteo Campagnoli di Babel Festival ai dubbi che sollevavo nel post di ieri.


Gentile Alberto, la scelta di Londra è dovuta a diversi motivi strettamente legati alle tematiche del festival. In genere tendiamo ad invitare una lingua o una nazione che contiene in sé quella lingua, ma il bacino dell’inglese è troppo ampio per un simile approccio. Già nel 2008, con un’edizione intitolata “Gli inglesi Uniti d’America”, avevamo ristretto il campo invitando scrittori di lingua inglese di varia provenienza a patto che vivessero o lavorassero negli Stati Uniti (tra questi Derek Walcott, Ha Jin, Jamaica Kincaid, Amitav Gosh, quindi di origine caraibica, cinese, indiana, ecc.). Allora l’idea era di guardare all’inglese come alla nuova lingua imperiale e agli Stati Uniti come al luogo in cui confluiscono gli scrittori delle “provincie dell’impero”, così come un tempo gli scrittori latini confluivano verso Roma. Era, tra le altre cose, un modo di mettere alla prova un’affermazione di Iosif Brodskij, che usando la stessa metafora sosteneva che sono sempre gli scrittori delle “province” quelli che rivitalizzano la “lingua imperiale” quando il centro cede).

Quest’anno, a giugno, abbiamo organizzato la nostra prima edizione di Babel fuori dalla Svizzera, a Londra. Ci sembrava quindi naturale e proficuo creare un dialogo tra la nuova edizione londinese e quella consueta di Bellinzona. Ancora l’inglese, dunque. Ma questa questa volta a Londra, altro importante centro di attrazione per scrittori e esseri umani di tutto il mondo. E in questo caso, come allora, la traduzione è centrale. Lo è sia in senso stretto sia in senso lato. In senso stretto – la traduzione letteraria, per intenderci –, come nei casi opposti di Xiaolu Guo, che nata in Cina e di madrelingua cinese ora scrive in inglese (e a volte si auto-traduce in cinese), o di Ma Jian, che sebbene risieda a Londra da più di trent’anni l’inglese non ha mai voluto impararlo, e i cui romanzi sono tradotti dalla moglie e pubblicati come originali, perché lui in Cina è uno scrittore bandito. In senso lato in quanto qualsiasi persona trapiantata in un contesto straniero deve continuamente tradursi e tradurre il mondo che la circonda, con gli scambi, gli scontri, le messe in relazione, le ibridazioni personali, linguistiche, culturali che ne conseguono. Da qui gli inviti a Saleh e Sulaiman Addonia, per esempio, scrittori profughi di origine etiope-eritrea che scrivono in inglese, o a  Annie Holmes che è andata ad ascoltare le storie dei profughi ammassati nella Giungla di Calais e dei francesi che lì vivono e lavorano. “Traduzione”, nel nome del nostro festival, è un concetto molto ampio che oltre a tutto questo comprende anche la traduzione tra generi: testi letterari messi in musica, traslati in arte figurativa, adattati per il cinema, e viceversa. Le nostre tematiche principali, in ogni edizione, sono sempre state queste.

Quando alla fine dello scorso anno abbiamo concepito l’edizione londinese di Babel e quella di Bellinzona dedicata a Londra, di Brexit non se ne parlava nemmeno. Non stiamo cavalcando l’attualità, siamo stati raggiunti dall’attualità, per puro caso, e non abbiamo voluto scansarla, perché pensiamo che la letteratura sia uno dei modi più efficaci di far presa sulla realtà. Compresa quella estremamente complessa delle persone “tradotte” o “auto-tradotte” nelle migrazioni o di chi per motivi politici o anche solo personali si è ritrovato a vivere lontano dal suo Paese di nascita.

Mi auguro di essere riuscito a chiarire i suoi dubbi, sebbene il tempo non sia dalla mia parte. Tra due giorni comincia il festival, e stiamo anche per lanciare una rivista. E questo, purtroppo, mi costringe a scrivere di fretta.

Matteo Campagnoli, Babel Festival.

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