mercoledì 15 giugno 2016

"Piovono occhi morti": l'intervento di Matteo Giancotti

Di seguito l'intervento scritto e letto da Matteo Giancotti in occasione della serata dedicata alla poesia della Prima guerra mondiale dello scorso 9 giugno a Treviso intitolata "Piovono occhi morti". Questo testo precedeva la lettura di poesie di Piero Jahier, Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora, Massimo Bontempelli, Ardengo Soffici, Sergio Solmi e Giuseppe Ungaretti. La selezione dei testi si è basata su un lavoro di riferimento per il tema quale è l'antologia curata da Andrea Cortellessa Le notti chiare erano tutte un'alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale (Bruno Mondadori, 1998).

Massimo Bontempelli
Quando scoppia la guerra, nell’estate del 1914, l’Italia si dichiara neutrale, ma gli intellettuali italiani non hanno intenzione di stare a guardare. Sentono che l’aria è satura di violenza e, coi loro scritti, agiscono da acceleratori della crisi. Non parliamo solo dei futuristi, che non vedevano l’ora di tirare qualche bomba, ma anche di persone più “civili” come Renato Serra e Piero Jahier. Per vari motivi, di natura diversa, psicologica o politica, molti sentono di non poter mancare l’appuntamento con un fatto epocale, con una occasione che non si ripresenterà mai più: il primo testo che leggeremo, di Piero Jahier, parla proprio dell’impossibilità di stare a guardare in un momento come quello.

C’è chi come Camillo Sbarbaro va in guerra pur di allontanarsi da casa, pur di interrompere per un po’ i circuiti ossessivi della vita cittadina: ufficio-osteria-bordello. A Sbarbaro la vita borghese sembrava un manicomio. Ma, una volta al fronte, la vita militare gli si rivela subito altrettanto folle. Pur di fuggire a quella specie di manicomio diffuso che è la zona di guerra, i soldati cercano di procurarsi una qualunque malattia: mutilazioni, otiti, ernie, ferite di ogni tipo. Di autolesionismo, e dello stupore di trovarsi al fronte, Sbarbaro parla in una delle poesie in prosa che chiamava Trucioli: istantanea memorabile, tanto realistica quanto visionaria, con la quale ci affacciamo alla guerra.  

Anche un poeta come Clemente Rebora, che non era certo un guerrafondaio, si trova, nel 1914, più vicino agli interventisti che ai neutralisti. Come uomo, è in crisi da sempre, ma in quel momento, anche per motivi sentimentali, la sua vita è arrivata a un punto di non ritorno; e se la vita è già una guerra, a quel punto tanto vale andare a «rompersi il capo» al fronte. Come altri, che erano stati interventisti, Rebora si accorge però immediatamente, una volta vestita l’uniforme, che la guerra vista da vicino è orrenda oltre ogni immaginazione. Rebora è capace di sentire con incredibile forza di penetrazione il dolore degli altri più che il suo. Una madre che si separa dal figlio in partenza per il fronte, con uno straziante addio alla stazione, in mezzo a tante chiacchiere indifferenti della gente che non conosce il dolore, dice molto di cosa la guerra produca nelle vite normali, fuori dalle speculazioni intellettuali. Col testo di Rebora, che si intitola In orario perfetto ed è ambientato in una stazione ferroviaria lontana dal fronte, entriamo a tutti gli effetti nel fenomeno emotivo della guerra.
Nel testo seguente, che è sempre di Rebora e si intitola Perdono?, vediamo in quale stato la violenza della guerra possa ridurre il corpo di un soldato; un soldato che è forse lo stesso da cui si separava quella donna alla stazione. Un soldato il cui corpo, un tempo, era stato quello di un bambino innocente che faceva pipì. In questa prosa lirica violentissima i veri temi dominanti sono l’innocenza perduta, e il legame creaturale tra figlio e madre.
Al fronte, assistere allo spettacolo quotidiano della mutilazione e della decomposizione rafforza in certe anime spietate il gusto di vivere e di sentirsi vivi; il gusto di sentirsi tutti i pezzi del corpo ancora attaccati addosso, come nella poesia Voluttà di Massimo Bontempelli. L’incredulità di sopravvivere, minuto dopo minuto, al disastro, ha fatto sì che ad alcuni i giorni di guerra sembrassero i più belli della vita. Per chi era portato ad assaporare il rischio, ogni istante al fronte, vissuto come se fosse l’ultimo, era di per sé una condizione euforizzante, miracolosa. Ogni istante di vita in più, per chi era cieco al dolore degli altri, poteva dare piccoli delirii di onnipotenza: è di questo che parla la poesia di Ardengo Soffici intitolata Sul Kobilek. Questa poesia parla di un’illusoria bellezza del momento, di un momento di fraternità cameratesca che ha la parvenza dell’eternità.
Prima che l’Italia entrasse in guerra, gli interventisti scalmanati, come Papini, pensavano che un bagno di sangue fosse necessario per rigenerare una civiltà stanca. Il loro ragionamento era semplice, oggi diremmo semplicistico, se non criminale, e prevedeva una regressione alla barbarie. Bisognava, secondo Papini e i futuristi, spargere la morte a manciate, per resuscitare la vita. I futuristi sono costretti a mostrare di pensarla così anche a guerra in corso. Sono un movimento compatto, rispondono tutti alle direttive del loro capo, Filippo Tommaso Marinetti, uno che la guerra la “glorifica” fin dal 1909. Una volta in guerra, i futuristi la guerra devono farsela piacere. Forse per questo c’è sempre qualcosa di artefatto e di forzato nelle poesie futuriste sulla guerra: il loro inno alla morte suscitatrice di vita non è mai troppo inquietante perché in fondo fa parte del programma.
Inquietanti sono piuttosto le poesie di Massimo Bontempelli, che non è un futurista della prima ora ma un classicista convertito al futurismo, oltretutto in età matura. Di Bontempelli leggiamo altri due testi, oltre a Voluttà, che abbiamo già letto. Una poesia si intitola Vita; e qui il titolo può sembrare paradossale ma purtroppo non lo è: Bontempelli vuole davvero dirci che le armi per lui sono vita, e che la morte serve a rinnovare la vita. In una parola, vuole dirci che la morte è vita. Ma perché dargli la parola, oggi?
Se cancelliamo la prospettiva aberrante di quelli che hanno ucciso con piacere, di quelli che hanno assaporato la voluttà del pericolo e della morte, rischiamo di non capire perché si sia potuto scatenare un enorme macello durato quasi cinque anni. Purtroppo non erano pochi, quelli che provavano il piacere perverso di uccidere. 
Un’altra poesia di Bontempelli è Armonia. Parla dell’ansia di cui si soffre sotto il bombardamento, e dello sforzo di autocontrollo necessario per resistere alla follia. Parla della distrazione che bisogna procurarsi, pensando intensamente a una cosa qualunque lontana dalla guerra, fosse anche il negozio del fiorista che sta all’angolo del corso. Bontempelli si costringe a pensare, mentre è in guerra, alla vita civile.
Nel testo che abbiamo preso da Sergio Solmi, intitolato Ricordi del 1918, succede invece il contrario. Qui la guerra è finita, la vita civile è ricominciata da tempo. Ma basta un niente, basta la traccia di un odore, perché il cervello ricrei, con una precisione impressionante, il ricordo della guerra. L’esperienza della guerra ha scavato solchi profondi nel cervello dei combattenti, tracce nascoste che continueranno a riattivarsi fino all’ultimo giorno della vita del reduce.
E così abbiamo cominciato a inoltrarci nel territorio incerto, senza date, della guerra dopo la guerra, della guerra che non finisce.
Per quelli che l’hanno fatta la guerra è stata un evento separatore. Ha separato, in molti casi per la prima e unica volta, i soldati dai luoghi d’origine e dalle loro famiglie. Ha separato, nella vita di ognuno, un prima da un poi. Di quelli che erano partiti, molti non sono tornati; alcuni tornano irreparabilmente menomati nel corpo; altri ancora tornano apparentemente integri ma in realtà con qualcosa di rotto dentro, con una frattura psichica che impedisce loro il ritorno al normale tempo di pace. Di questo parlano gli ultimi due testi di Clemente Rebora, che rappresenta uno dei casi più noti tra quelli dei molti soldati perduti nel calvario tra ospedali militari e manicomi, dove si tentava di “guarire”, con metodi rozzi e spesso inumani, le malattie psichiche causate dai traumi della guerra.
Anche se la guerra è lontana, o finita, le percezioni di questi reduci continuano a essere distorte, a essere percezioni “da prima linea”. Lo si avverte nettamente nella prosa lirica di Rebora intitolata Rintocco. Non ci si sente più al sicuro nemmeno in casa, lontani dalla guerra. La casa non è più accogliente, può trasformarsi da un momento all’altro in una spelonca, in una grotta, da cui riemerge l’incubo primitivo della trincea. Le luci zampillano disordinatamente, il tempo crolla, gli affetti sono irrecuperabili.
Non per caso un’altra poesia di Rebora si intitola Tempo. E’ il tempo della guerra, che si è come inceppato, si è esteso all’infinito; e l’equilibrio psichico del reduce è sempre sul punto di crollare. E’ questo l’uomo che si fa carico della vera memoria della guerra. Altri provano a rivivere, a dimenticare. Il poeta-testimone non guarisce dal trauma. Ha visto troppa morte, troppo orrore, e non si concede di dimenticare. Ha il dovere di ricordare. Dunque ha il dovere di non guarire.
Che dire infine di Ungaretti? La sua fama universale ha reso quasi impronunciabili le sue poesie più note. Quel suo fortunatissimo libro, intitolato Il Porto Sepolto, pubblicato a guerra in corso, nel 1916, è forse il primo fenomeno pop della letteratura italiana. Con pochi magri versi Ungaretti ha condensato l’atmosfera di un’intera epoca, ha dato una vera forma alla maturità delle avanguardie, ha trovato per la sua poesia una voce indimenticabile, di impressionante efficacia comunicativa. Dietro il fenomeno Ungaretti, c’è una straordinaria vicenda di ricerca interiore, uno scavo ininterrotto che collega il buco della trincea con le cavità del Carso e con una lunga serie di buie gallerie dell’anima.
Al fronte, Ungaretti coglie l’occasione della guerra per scavare in solitudine dentro se stesso. Ungaretti non dice no alla guerra, perché è troppo concentrato a dire di sì alla poesia: la sua.
Chi dice veramente no alla guerra è Sbarbaro, che arriva al punto di cancellare la guerra dal paesaggio, per fare emergere dal quadro dell’Altipiano di Asiago soltanto la sovrastante forza della natura.  Il “truciolo” 34 è l’ultimo testo della parte italiana.

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