lunedì 18 aprile 2016

da "Poesie" di Goffredo Parise: tempestività e inevitabilità totali

Una poesia da #59


Poco si ricorda del Parise poeta. In effetti la sua eredità in tal senso non è voluminosa, è piuttosto luminosa. Si può auspicare che un anniversario, come il trentennale della morte che cade quest'anno, riporti l'attenzione anche su quest'aspetto tardo e non meno interessante della scrittura parisiana, possibilmente in un percorso di analisi non improvvisato e avulso come questo. Si trattò comunque di dettatura, più che di scrittura: le trenta poesie pubblicate da Rizzoli nel 1998 in un'edizione di pregio con l'introduzione di Silvio Perrella (ora fuori commercio, ma sicuramente disponibile in molte biblioteche) sono il frutto di due mesi di dettatura a Giosetta Fioroni e all'amica Omaira Rorato, tra il marzo e il maggio 1986 (Parise morirà di lì a tre mesi, a fine agosto). Lo scrittore, ormai molto malato, fu infatti preso da una strana e cieca (anche fuor di metafora) foga dettatoria che diede vita a versi insoliti per il panorama poetico novecentesco italiano. Mi è capitato di rileggerli poco fa, diciotto anni dopo la prima spaesata lettura. Tra coloro che seppero intravedere in questi "tempestività e inevitabilità totali" vi fu Andrea Zanzotto, che mai si stancava di ricordare questo nucleo di poesie con le quali lo scrittore salutò la vita, invitando a leggerle e studiarle fuori dai tanti solchi in cui Parise fu fatto scorrere (il vitalismo ereditato da Comisso, il poeta-non-poeta dei Sillabari, il darwinismo acuto dell'ultima fase). E allora non andrebbe nemmeno dimenticata, nella direzione opposta, la felice intuizione parisiana sull'inversione della sonda/trivella zanzottiana a un dato punto del suo lungo percorso poetico, poiché son proprio sonde e trivelle che più ci interessa individuare nelle opere e anche nei percorsi della critica.

Fu "stile tardo" quello di questi versi, per usare la formula di Edward Said? Non lo sappiamo e non è questo il posto per provare a confermare o confutare un'idea del genere. Certo che Perrella ha ragione a scrivere di "parola estrapolata dal tambureggiamento primordiale" e tutto ciò è ravvisabile nelle scelte lessicali e persino nei neologismi arditi che costellano la trama di questi testi terminali (si legga anche nel testo riportato in fondo). Poiché è stato citato, ricordo che del curatore Silvio Perrella è da poco stato riproposto Fino a Salgareda - stavolta per Neri Pozza, editore che nel 1951 pubblicò il romanzo d'esordio di Parise, Il ragazzo morto e le comete - un interessante saggio uscito originariamente per Rizzoli che a suo tempo fu capace di offrire una sonda interpretativa nuova della scrittura "nomade" di Jaufré.

In un'intervista di pochi anni precedente la morte (leggibile per intero qui), parlando proprio del morire, Parise aveva detto:
"Ho una paura tremenda, e basta. Paura del niente, del fatto che non mi sveglierò più al mattino a guardare il cielo. Questa consapevolezza mi dà un dolore immenso. Mi piace enormemente vedere il sole, le persone, la vita. Molto." 
Dicendo vita avrà avuto in mente anche il cane Petote, "tra coloro che non fanno banda" e questa è la poesia-ritratto che gli dedicò.


PETOTE


Come me anche tu
cerchi compagnia
ma non tra i canini

Diffidi dei proverbi
e a Darwin credi
quanto basta per esistere

Ma sai che l'onore
ha regole senza specie
il pedigree obbedisce
a chi gli è simile

Magra è l'onda
della bestia di stile
e tu sei bestia di stile
sei tra coloro
che non fanno banda

Pensiero di setola
ma olore di lord
ti degnò la magra
la sprecona lady
dell'universo.



23.4.86


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