sabato 12 settembre 2015

Su una ipotesi di Pier Vincenzo Mengaldo, su lacerazioni e omologazione, su trauma e non trauma

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #9

Pier Vincenzo Mengaldo
Qualche settimana fa sul settimanale del Corriere della Sera "La Lettura" è apparsa un'intervista a Pier Vincenzo Mengaldo. Verso la fine lo storico della lingua e critico confessa la passione per gli scrittori israeliani sostenendo questo: "Parecchi anni fa ho formulato un’ipotesi: che cioè la narrativa migliore nasca in Paesi in cui la società e la politica pongano seri problemi nazionali, per esempio contrasti etnici, politici, religiosi. Paesi in cui le lacerazioni sono profonde, come Israele. Alla letteratura non fa bene un tipo di società omogeneizzata, come sono quella italiana o quella francese". Mi verrebbe da chiedervi banalmente se siete d'accordo con questa ipotesi, ma non avrebbe molto senso. Anche per Mengaldo - mi par di capire - si tratta pur sempre di un'ipotesi che andrebbe suffragata con un lavoro lungo, accurato e sicuramente controverso. Per restare sulla traccia, quale spinoso breve libro mi piacerebbe scrivere o trovare attorno a questa affermazione e al nucleo di riflessioni che la presuppone?

Provo ad andare con ordine, premettendo che di primo acchito non mi sono trovato in accordo con Mengaldo e che per nulla sono rimasto affascinato dall'ipotesi. La sua è un'affermazione che ci si aspetta da un uomo della sinistra che fu, come lui stesso si definisce all'inizio dell'intervista, quando giustamente lamenta la barbarie preoccupante a cui siamo giunti, anche in Italia. Si tratta di una ipotesi in larga parte ancora in scia ad una critica letteraria marxista: il contrasto e il conflitto da un lato, l'omogeneità e l'omologazione dall'altra, l'aspettarsi che la letteratura dia il meglio di sé nel conflitto, nello sporco, nel disastro. Fin qui niente di nuovo, mi pare. Ora, da Boccaccio in giù abbiamo tutti ben presente che cosa significhi il ritrovare nella letteratura il cosiddetto tessuto sociale, e lo avevamo appreso anche dallo studio della letteratura latina o in altre ancora. Se questo tessuto sociale è omogeneo (omologato?), poco contrastante, come potrebbe essere il caso attuale di Italia e Francia, ne deriverà anche una letteratura meno interessante e meno increspata, piatta (i dati sulla disoccupazione e disuguaglianza, italiana e francese, non mi spingerebbero a parlare in questo modo, ma tralascio, anche perché si rischia di riesumare i disastri della "letteratura del precariato" e del suo fetido marketing mix). A sostegno di tutto ciò, potremmo inoltre ricordare che dalle lacerazioni dell'epoca di Dante è scaturito quel poema inarrivabile che è la Commedia. Ma c'è una qualche originalità in un'affermazione come quella di Mengaldo? Si può considerare interessante a sua volta questa ipotesi? Vi ricordate Orson Welles ne Il terzo uomo? Intendo quella celebre battuta che vuole l'Italia delle lotte intestine, dei massacri, dei Borgia in grado di produrre Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento, contrapposta alla pacificata Svizzera che in cinquecento anni non è stata in grado di produrre qualcosa di più rilevante degli orologi a cucù? Anche quella battuta può vicendevolmente stimolarci come anche lasciare il tempo che trova (magari domani potremmo scoprire che il vicino di casa dell'inventore degli orologi a cucù scrisse un poema magnifico). A mio avviso la debolezza dell'ipotesi sta nel continuare a far derivare una letteratura interessante da un contesto problematico di contrasti "etnici, politici, religiosi". Il punto su cui non possiamo più andare così lisci e tranquilli è la facile derivazione dell'interesse di una data letteratura nazionale dal coefficiente di lacerazione del contesto sociale nel quale questa sorge e si nutre.


Mengaldo definisce la sua come un'ipotesi, e allora mi chiedo anche quale genere di ipotesi sia un'ipotesi che collega con disarmante linearità la "narrativa migliore" ai "Paesi in cui la società e la politica pongano seri problemi nazionali". Interessante notare come nell'intervista Mengaldo parta dalla narrativa, per poi concludere più genericamente che "alla letteratura non fa bene un tipo di società omogeneizzata". Inoltre, in che senso intende questa ipotesi Mengaldo? Se, come credo, la intende in termini di ipotesi scientifica, non gli mancano certo gli strumenti o i dati per verificarla (cioè le opere dei narratori che spinti da contesti realmente problematici producono una narrativa migliore), se invece la intende dal punto di vista della logica, cioè come un enunciato assunto come dato allo scopo di verificarne le conseguenze e a prescindere dall'effettiva correttezza dell'enunciato, mi chiedo che cosa potrà sprigionare questo enunciato e dove potrà condurre. In altre parole, in questo secondo caso, mi domanderei se la sua ipotesi sia una buona, promettente e originale intuizione critica.

C'è da aggiungere, infine, che il ragionamento di Mengaldo, pur rimandando curiosamente e in modo interessante a contesti nazionali, si colloca in una cornice che è quella che ha elevato il trauma o l'assenza di trauma a grimaldello critico principale per spiegare pressoché ogni cosa in letteratura. E a me pare che abbiamo chiesto di spiegare un po' troppo al trauma e che ormai non ce la faccia più a darci delle dritte interessanti, nemmeno se con un'intuizione critica interessante, furba ma miope si pone l'assenza di trauma come centrale (si veda ad esempio lo stimolante libro di Daniele Giglioli, emblematicamente intitolato Senza trauma). In un librino allora mi piacerebbe provare a verificare quest'ipotesi, non tanto come ipotesi scientifica da suffragare coi dati, quanto piuttosto come enunciato secco che viene assunto per indagarne le conseguenze, a prescindere dalla sua correttezza e corrispondenza alla realtà. E quale sarebbe dunque il mio enunciato? Questo:  

Le potenzialità esplicative ed euristiche del concetto di trauma (e parimenti quelle del concetto di assenza di trauma) nella critica letteraria sono pressoché esaurite. Questo non significa espungere il trauma, reale o immaginario, dalla nostra epoca (così come non significa escludere comunque delle possibilità di "riabilitazione"). Significa, forse più banalmente, porre dei dubbi sulla progressiva inservibilità di un concetto abusato.

(Comunque scherzavo: sarebbe una perdita di tempo scrivere un libro del genere, mi bastava scrivere questo post.)

3 commenti:

  1. Se proprio vuoi confrontarti con la cultura del prof. Pier Vincenzo Mengaldo, Accademico dei Lincei, ti conviene andare un po' meno di fretta, che brevitas non è. Leggi, confronta, studia e proponi esempi a supporto di qualche riflessione che possa non dico contraddire lo studioso che citi con tanta boria, ma chiamarsi riflessione e non slogan. Lauree brevi, appiattite sulla superficie dello smartphone, a forza di scaricare .pdf invece di incontrare davvero un Maestro come il prof. Mengaldo, lasciano il tempo che trovano: senza dubbio, breve. Buona fortuna.

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    1. Scusi leggo solo ora il commento anonimo. Se vorrà firmarlo potremmo anche avere una discussione, breve. Un cordiale saluto e buona fortuna anche a lei

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  2. Dimenticavo: se per lei è "boria" dissentire in modo educato dalle opinioni degli studiosi più autorevoli temo non potremo mai provare a capirci. Il problema, talora schiacciante, dell'ipse dixit del resto è noto da secoli. E poi, se Mengaldo è appunto lo studioso che sappiamo e io un pinco pallino con laurea breve (non corrisponde al vero, ma facciamo finta di sì), per giunta secondo lei borioso, perché perdere tempo? Per sua informazione possiedo comunque molti libri del prof. Mengaldo, che ho persino letto. Stia bene e un augurio di buona vita, anche se è difficile fare questi auguri (sentiti) a chi non si firma

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