venerdì 20 febbraio 2015

"Il liuto e le cicatrici" di Danilo Kiš

Danilo Kiš (1935 – 1989)
Non amo parlare di folgorazioni con riferimento alle letture, siano esse di poesia o prosa narrativa e saggistica. Fra l'altro credo molto alla rilettura, di cui si parla sempre troppo poco, anche se ben si capisce: parlare di rilettura quando anche la lettura sta poco bene potrebbe sembrare un lusso lezioso. Chi però rilegge sa bene che le riletture hanno risorse e estensioni proprie che difficilmente la "prima lettura", per quanto coinvolgente o addirittura sconvolgente, possiede. Nel caso di Danilo Kiš comunque userei di buon grado la parola "folgorazione" per descrivere i momenti e le sensazioni percepite quando lo incontrai sulla pagina le prime volte: Dolori precoci, Giardino, cenere e Enciclopedia dei morti, questo fu per me il trittico micidiale di avvicinamento allo scrittore nato a Subotica. Per questo e altri motivi non si può non salutare con profondo interesse ogni nuova opera che arriva in traduzione, tanto più se si tratta di sei racconti, "ritrovati tra le carte", che Kiš scrisse in anni fondamentali, tra il 1980 e il 1986, ovvero un po' prima e un po' dopo l'Enciclopedia che uscì nel 1983.

Il liuto e le cicatrici arriva come le altre opere di Kiš nel catalogo Adelphi (pp. 157, euro 13, traduzione di Dunja Badnjevic, note critiche di Mirjana Miočinović). Raccoglie sei racconti, di ambientazioni e ampiezze diverse e non è sbagliato leggerli in consonanza con l'Enciclopedia dei morti. E quindi, se consonanza c'è, la morte resta per forza centrale, come in altre pagine, ma qui riaffiora il senso di mistero di alcuni momenti isolati che insistono in prossimità di una fine e di un sentimento di finitudine. Per uno scrittore che ha attraversato l'Europa e precocemente ne ha fatto propri i dolori immani, la scrittura è divenuta pratica irrinunciabile per osservare e passare le dita sulle cicatrici. Questi racconti, come gli altri scritti che compongono il corpus di Kiš, travalicano tutti quei miti ormai poco credibili (e forse persino poco redditizi) sulle zone di confine, su una certa costruzione del "mito balcanico" in letteratura o sullo scrittore apolide. D'accordo, tutti questi aspetti qualcosa c'entrano nel modo in cui gradiamo raccontarci le cose, ma iniziano a star stretti. Molto stretti. Se esiste una res publica litterarum (e forse esiste, davvero, ed è la sola repubblica che resiste da secoli) Danilo Kiš ne è stato un abitante tra i più importanti e vi ha respirato a pieni polmoni. Io continuo a leggerlo come uno dei non molti scrittori capaci di rendere la molteplicità dell'esperienza umana negli istanti brevi in cui è investita e travolta da ciò che chiamiamo "storia" e che, per il momento almeno, non ha un nome migliore.

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