giovedì 16 ottobre 2014

da "Elegie romane" di Iosif Brodskij

Una poesia da #45

Iosif Brodskij (1940 - 1996)
Senza scomodare il Grand Tour oppure D'Annunzio, Goethe e Sesto Properzio che scrissero a loro volta elegie sulla nostra città eterna e senza rivangare altre faccende e collegamenti più o meno gratificanti intellettualmente, si potrebbe provare a notare, di tanto in tanto, quante e quali poesie gli scrittori abbiano dedicato al nostro paese, ai suoi paesaggi, alle sue città e a Roma in particolar modo e come la geografia della nostra penisola sia cespite di quella che chiamiamo "ispirazione", termine sempre ispido in poesia e per questo posto tra virgolette. Questo avviene anche nelle Elegie romane di Brodskij che trovate all'interno del volume Adelphi intitolato semplicemente Poesie (a cura di Giovanni Buttafava, pp. 223, euro 18). Ho scelto per oggi la numero XII. Non penso di aver bisogno di spendere molte parole su questo testo e sulla serie delle Rimskie elegii pubblicate per la prima volta a New York nel 1982 e riportanti in esergo una dedica a Benedetta Craveri: resto al testo di oggi, alla sua affilata bellezza, quasi vertiginosamente oltraggiosa nella parte centrale, reclamante soltanto l'attenzione di chi legge.


Chìnati, Ti devo sussurrare all'orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridìo delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c'è mano, e non c'è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque.
Sei stato il primo a cui è accaduto, vero?
E può tenersi a un chiodo solamente
ciò che in due parti uguali non si può dividere.
Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come
può soltanto sognare un frantume! Una dracma
d'oro è rimasta sopra la mia rètina.
Basta per tutta la lunghezza della tenebra.

2 commenti: