giovedì 17 luglio 2014

"Quasi un abbecedario" di Giorgio Orelli. Sei domande a Yari Bernasconi

Librobreve intervista #43

LB: Quasi un abbecedario, libro postumo di Giorgio Orelli che hai curato per le edizioni Casagrande (in uscita in questi giorni, pp. 80,  Eu 14.50 - CHF 18.00), ha una genesi singolare. Potresti raccontarla?
R: L’idea dell’intervista in forma d’abbecedario è nata tra il 2010 e il 2011, durante una riunione del comitato di redazione di «Viceversa Letteratura», che voleva dedicare a Giorgio Orelli un dossier del suo quinto numero. Un modo per evitare toni celebrativi, ma anche per lasciare Orelli – conversatore straordinario – più libero di raccontarsi. L’iniziale lista di parole che gli abbiamo sottoposto cercava di toccare – dalla A alla Z – alcuni cardini della sua esperienza di scrittura (e non solo), così da ispirare aneddoti, precisazioni o approfondimenti. Da subito, però, l’esercizio si è trasformato in qualcosa di ancora più creativo: gli incontri si sono moltiplicati; alcune parole sono state aggiunte e altre lasciate cadere; la stessa forma orale dell’abbecedario – fondato sulla trascrizione poi rivista e approvata di diverse registrazioni sonore – si è fatta elastica e ha accolto alcuni testi battuti a macchina direttamente da Orelli. La prima tappa di questo abbecedario è appunto apparsa su «Viceversa» (n. 5, 2011), mentre il libretto Quasi un abbecedario rappresenta in un certo senso l’aggiornamento di quella prima esperienza e, insieme ai testi del 2011, rende conto dei successivi incontri (ci siamo visti l’ultima volta nell’autunno del 2013). In fondo, ci siamo lasciati guidare dalle conversazioni e dalla loro imprevedibilità, con stupore, senza porci troppe domande.


LB: Si ritrovano in questo libro, a mio avviso, molte delle caratteristiche di un altro libro di Orelli, La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi (uscito sempre per Casagrande). Mi riferisco a quel lavoro di torsione sulle parole e sulla lingua, un lavoro per certi aspetti "sporco", rasoterra. Ci sono sicuramente Contini, Spitzer, padre Giovanni Pozzi. Pure Roman Jakobson. Tutti nomi che tra l'altro appaiono in questo libro e ai quali è talvolta dedicata persino una lettera. Ma chi sto dimenticando tra quelli che Orelli amava e che non sono presenti in questo libro?
R: Giorgio Orelli si è sempre interessato alla critica cosiddetta “verbale”, aderente cioè – come afferma lui stesso, «alla testualità, o semplicemente all’espressività del discorso poetico». Il “manifesto” di questo impegno critico è il volume Accertamenti verbali (Milano, Bompiani, 1978), a cui sono seguiti diversi altri libri. L’ultimo è proprio La qualità del senso, senz’altro legato all’abbecedario in tutte le sue parti di critica letteraria, che si alternano però ad aneddoti e momenti più colloquiali. Del resto, alla lettera V come Varianti, l’incipit è significativo: «Certo, ogni critica è buona quando è buona. E poi: la critica è opera di intere generazioni. E poi... Stiamo col Contini, per il quale “è evidente che quella buona si svolge tutta sopra un solido fondamento verbale”». Ma sui “nomi” amati da Orelli si potrebbe discutere (chiaramente Contini, suo docente a Friburgo negli anni dell’università, è il primo nome da fare), con alcune sorprese: alla lettera J come Jakobson, per esempio, compaiono le Microlectures di Jean-Pierre Richard. Restando alla critica verbale, comunque, i nomi che ritornavano più spesso durante le chiacchierate (anche per alcune loro parole particolarmente felici o memorabili) sono Valéry e 
Mallarmé.


LB: Quello che mi stupisce di fronte a questi ragionamenti di cui sopra è come una solida base teorica lasci tuttavia spazio a impennate di critica e analisi testuale degne di una fantasia straripante, "infantile" nel senso più bello del termine. Ecco, la "fantasia di Orelli" (a mio avviso massima quando si addentra in certe analisi su Dante). Tu l'hai conosciuto e sai dire se questo aspetto fantastico è centrato e come va aggiustata eventualmente questa percezione.
R: Giorgio Orelli era molto curioso e non finiva mai di stupirsi. Penso che questo possa essere un buon punto di partenza – ancorché semplicistico – per avvicinarsi al suo lavoro (parlo della critica come della poesia, della narrativa, della traduzione). E il suo formidabile orecchio, unito all’erudizione ma soprattutto all’incredibile memoria, gli ha permesso di scoprire come pochi altri (forse come nessun altro, almeno in Italia) quanto agiscano sui testi – consciamente o inconsciamente – le infinite risorse del linguaggio. Orelli è stato per esempio capace di leggere passi battuti e ribattuti della nostra tradizione letteraria (come L’infinito, o l’attacco della Commedia) illuminandoli ulteriormente e illustrando caratteristiche che, a posteriori, sembra impossibile fossero rimaste nascoste.

LB: Te la senti di spendere la parola "maestro" per Orelli?
R: Senza ombra di dubbio.

LB: Qual è la tua lettera-parola preferita in questo abbecedario?
R: Da una parte, R come Rösti mi ha sempre divertito molto. Dall’altra, però, G come Goethe è l’ultimo testo battuto a macchina da Orelli per l’abbecedario, e l’ultimo a essere entrato nel libro: forse ci sono ancora più legato.

LB: Il libro è incompiuto (Orelli è morto nel novembre 2013), tuttavia giustamente tu ricordi nella nota introduttiva che non ha molto senso appassionarsi troppo al confine tra compiuto/incompiuto. Secondo te, se ci fosse stato modo di proseguire, quale lettera sarebbe arrivata dopo?
R: Ne sarebbero arrivate molte altre, e altre ancora sarebbero state scartate, poi forse ripescate, poi forse perse. Una lettera che gli avrei ancora proposto? La prima che mi viene in mente è Z come zoo.

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