martedì 6 agosto 2013

Fabiano Alborghetti e "L’opposta riva" dieci anni dopo

Librobreve intervista #18


Di Fabiano Alborghetti ho già scritto brevemente, dando notizia di un bel ciclo di letture che si teneva al Parco Basaglia a Gorizia. Ora c'è l'opportunità di andare più dentro il suo lavoro. L'occasione è la recente pubblicazione de L'opposta Riva (dieci anni dopo) (La Vita Felice, pp. 97, euro 14), raro esempio di riscrittura di un libro già apparso con il medesimo titolo per Lietocolle nel 2006. Alborghetti è nato a Milano nel 1970 e da anni risiede nel Ticino. La sua è una poesia non facile, e non tanto nel senso della scrittura/lettura, dell'intrico lessicale-sintattico-metrico, bensì non facile per i temi che avvicina, così lontani dalla rassicurante patina "glamour" che sembra aver ricoperto tanta poesia in lingua italiana. Ecco, io credo che la scrittura e l'apertura di Alborghetti al mondo costituisca anche una sorta di antidoto a tante chiacchiere alle quali abbiamo assistito con le braccia penzolanti, increduli. Qui, in queste pagine, ritornano la vita e il suo dramma al centro. Un motivo in più inoltre per guardare con la massima attenzione a quanto accade nella Svizzera di lingua italiana, regione in grado di offrire uno spettro di letture poetiche davvero ampio e mosso.


Il libro uscito
per La Vita Felice
LB: Borges sosteneva che un testo definitivo è il risultato e frutto della stanchezza o della religione. Nel tuo caso ci troviamo davanti ad una non frequente o comunque non comune operazione di riscrittura di un importante libro di poesie caduto quasi come un seme lungo la traccia del tuo percorso. A distanza di dieci anni, cosa scatta nel cervello di che si cimenta a riscrivere un libro? Eri "stanco" dopo la prima stesura de L'opposta riva e, se sì, in quale accezione dell’aggettivo?
RISPOSTA: non stanco del libro o di una stesura, non in questa direzione. Stanco della noncuranza, piuttosto. Stanco dei proclami dati da punti di vista disinformati, raffazzonati, cialtroni. La riscrittura è stato un atto arrabbiato, e consapevole di quanto nulla sia cambiato dall’arrivo in Italia dei primi immigrati. Era il 1991 e il mercantile “Vlora” attraccò al porto di Brindisi sbarcando oltre 20.000 albanesi in fuga da un paese al collasso economico e dal regime totalitario di Hoxha. Fu una cosa mai vista: le persone a grappolo sulla nave, come api aggrappate ad un ramo che fischiavano e e salutavano i pochi italiani che a quell'ora erano in porto, i pochi poliziotti, qualche vigile del fuoco, qualche finanziere, pochi operatori televisivi o giornalisti. Quel momento segnò una svolta epocale per l’immigrazione: ne seguirono moltissimi altri dall’Albania, lentamente raggiunti dal resto del mondo in fuga. Quando ho iniziato a vivere con i sans-papiers era il 2001 e le istituzioni ancora brancolavano in cerca di soluzioni ed erano passati dieci anni. Nel 2011 quando ho iniziato a riscrivere il libro, nulla era cambiato, ancora: L’Italia continuava (e continua) ad altalenare tra proclami e situazioni inadatte o imbarazzanti, al limite dell’incivile ed inumano. In questi vent’anni, sono stati decine di migliaia gli arrivi quanto le morti in mare. Perché ho voluto riscrivere il libro? Per cercare di ridare loro una voce, cercare una forma di giustizia, seppur minima. Le cronache ad oggi ancora riportano di arrivi e morti ma non sono più una notizia. Sono l’indignazione dei dieci minuti guardando un telegiornale, una pietà senza spessore né empatia. Sono una pagina di giornale che non si legge. Non hanno volto, né nome, né storia ai nostri occhi. Questo è scattato. Per questo li ho rivissuti, riscritti. 

La precedente edizione
Lietocolle
LB: Ci puoi raccontare come è avvenuta la riscrittura? Intendo da un punto di vista quasi artigianale. Partivi dall'originale sempre e riscrivevi passo-passo oppure la riscrittura avveniva secondo altre dinamiche?
RISPOSTA: ho ripreso i vecchi appunti, i centinaia di quaderni. Ho ricercato le storie, richiamato le loro voci. Soprattutto ho ricercato tutti i loro nomi perché li stavo dimenticando. Li stavo negando una seconda volta. Ho iniziato dalla prima poesia proseguendo sino all’ultima, riscrivendone ogni singola parola. Riscrivendo ho cercando di renderle ancora più chiare, lasciandone alcune intatte perché erano voci ancora chiarissime a distanza di così tanti anni: un grido che non andava soffocato né snaturato. Ho portato quella che era la mia lingua nel 2006 ad oggi, una lingua che è mutata in qualche modo, cercando però di rispettare il tono originario. Un equilibrio. Una questione di calibrature. È stato un lavoro complesso, che ha richiesto quasi due anni col sostegno del direttore editoriale de La Vita Felice, Diana Battaggia, che è stato punto di scambio, scontro, confronto, illuminazione e infine, successo. Riscritture su riscritture si sono susseguite, rincorse. Anche se apparentemente i testi attuali sembrano ricalcare quelli passati la realtà è fatta di ripensamenti dell’intera opera e di ricreazione da zero. 

LB: C’è anche una ricerca metrica quasi lampante. Le terzine, in numero variabile; sempre un verso da solo a concludere i singoli testi. Quali pensieri hai fatto, orientandoti su questi schemi?
RISPOSTA: l’uso della terzina e di un verso, spesso epigrammatico, in chiusura, è la forma nella quale più mi riconosco. Una forma chiusa, se vogliamo, ma per me vastissima. Così fu scritto - ed ho riscritto - L’opposta riva, così sono Registro dei fragili e Supernova. In questa stessa forma sono tutti i testi apparsi su riviste o quelli commissionati per specifici eventi quali mostre d’arte o interventi dedicati. È la mia forma naturale, la giusta casa per le parole. 

LB: Qual è stata la difficoltà maggiore nel tornare ad affrontare il tema tragico di questo libro, ora divenuto duplice, quale il passaggio più difficile da affrontare per tornare a scrivere di quei tre anni vissuti coi clandestini, con gli illegali o i sans-papiers?
RISPOSTA: la mia fragilità. La mia incompiutezza, l’inesperienza folle che mi vide vivere per tre anni una doppia vita per capire come vivono i clandestini, i sans-papier; il timore di non avere una giusta voce -anche a distanza di dieci anni- capace di rimandare non la mia, ma loro devastante esperienza, fuga, resistenza, sopravvivenza. Il mio essere disarmato, l’essere parte di un popolo colpevole di rifiuto e razzismo ignorante. Dopo tre anni ad un certo punto non ressi più. Mi allontanai, sovrastato da troppa vita, mancanza di vita, mancanza di giustizia. Ancor’oggi mi sento colpevole per questo. Io avevo potuto tornare alla normalità, alla mia vita, a una sicurezza non solo domestica ma di appartenenza alla nazione. Potevo interrompere “la finzione” del vivere con loro. Tornavo ad essere “legale” e al contempo non avevo mai smesso d’esserlo. Ho dovuto farci i conti, negli anni a seguire e poi daccapo riscrivendo tutti i testi. Riscrivendoli e vivendo “al sicuro”. Poi ho dovuto combattere la dimenticanza, il fatto che molto avevo perduto o forse rimosso. I loro nomi, soprattutto, che nell’edizione del 2006 avevo volutamente escluso (come anche i luoghi) per avere l’assieme di una storia globale e non una lente d’ingrandimento su una singola vicenda. Ora li ho recuperati, richiamati quasi tutti. L’indice del libro è un libro di nomi e luoghi. Una forma di parziale giustizia, spero. Queste le maggiori difficoltà ma ce ne sono ancora, substrati innominabili e molto personali. Cicatrici. 

LB: Nei dieci anni che stanno tra la prima versione e questa, come è mutata in te la materia trattata, il ricordo di quell'esperienza raccontata, di quelle persone e di quelle voci-volti che raduni in un indice che ho letto non certo tutto d’un fiato bensì con il fiato rotto?
RISPOSTA: è mutata non tanto la materia trattata, ma la mia coscienza. Forse, nell’ora che mi vede adesso, distante di dieci anni dal primo giorno di convivenza, riesco ad essere più distaccato e lucido e pertanto più partecipe, immerso e a fuoco. Una distanza che avvicina, anche se suona come un paradosso. Ho forse più esperienza come persona ed è qualcosa che adesso posso mettere al lavoro non per me, ma per far comprendere l’enormità di questo infame male. Di conseguenza, la materia trattata acquista un peso diverso, ed è diverso il modo di presentarla. Forse ho guadagnato delle armi strada facendo, armi non belliche ma morali.

Thierry Gillyboeuf 
LB: I tuoi libri sono spesso tradotti (penso al Registro dei fragili, ad esempio, che a breve uscirà pure in inglese per la cura di Marco Sonzogni). Anche questo libro sarà proposto in altre lingue?
RISPOSTA: Registro dei fragili ha visto estratti tradotti in nove lingue e traduzioni complete in francese (per le Edizioni d’en bas di Losanna con traduzione mirabile di Thierry Gillyboeuf) ed in inglese, come tu annoti. Per L’opposta riva è prevista una edizione francese ancora grazie alla traduzione di Thierry e ci stiamo già lavorando. Altre sono in fase di discussione per almeno cinque lingue. Le traduzioni sono però processi lunghi, sono processi di pazienza e lavoro. Il tema è d’attualità ovunque, sono pochi i paesi illesi: quelli che la migrazione vivono per accoglienza ed altri per esodo. È un libro che troverà spazio nell’attenzione di chi vorrà ascoltare. 

LB: “La distanza è direzione, il respiro è un fiato fatto passo…”. Scegli tu ora, per favore, i due testi da riportare a chiusura dell’intervista per i lettori del blog? Grazie.
RISPOSTA: la prima poesia è per ricordare quanto possa pesare il nostro rifiuto. La seconda è per farci riflettere su qualcosa che raramente è considerato, e per avere un lieto fine. I miracoli non accadono da soli, vengono fatti accadere. Per azione e volontà. 


*

Altri i fatti e forse abituerò.
Assomiglio al vicino, ne ho la forma: 
ho le medesime stanze da abitare a un altro piano

e in similitudine che importa l’origine nella somiglianza?
Resta uguale la sveglia la rata la maternità.
Soltanto la ricorrenza ci distingue 

ma oltre il Dio restano uguali gli affetti. 
Ci albergano dentro dove è pari il senso, il sangue. 
Solo gli occhi hanno differenze:

all’uguale altezza i miei abbassano, al tuo non vedere.


*

Il primo impegno al tempo nuovo mi indicava, il foglio 
tra le mani su cui rideva in girotondi. La busta paga
dà la prova che il pane che si mangia è guadagnato mi diceva

nessun sospetto ora, che si vive alle spalle di qualcuno…

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