lunedì 27 agosto 2012

"Camera straniera" di Marco Belpoliti ovvero Alberto Giacometti e lo spazio

Alberto Giacometti si nutriva di una vera e propria ossessione per lo spazio. Chissà se "ossessione" è la parola giusta. Esiste la sua arte però, a parlarci di questo. In realtà l'arte, nel suo misurarsi nello spazio e con lo spazio, non può fare a meno di essere continuamente rapita e interrogata da quest'ultimo. Se parliamo poi di un pittore-scultore, com'è il caso del grande artista vissuto tra Rue Hippolyte-Maindron a Parigi e il villaggio natio di Borgonovo di Stampa, in quella vallata della Val Bregaglia sempre in ombra e così ben descritta da Belpoliti, il problema spaziale non può che acutizzarsi ad ogni opera. Di questo e di molte altre suggestioni ci parla l'agile libretto Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio (Johan&Levi, pp. 59, euro 8,90) che Belpoliti ha scritto sulla scia di una lunga dedizione all'opera di Giacometti, sin da un'indimenticabile monografia della rivista "Riga" a lui dedicata.

Giacometti è tante cose, lo sappiamo. Le sue quotazioni stratosferiche, le sue amicizie (Genet, Sartre, Beckett, Dalì o Breton), i suoi ritratti fotografici consegnati dai polpastrelli di Man Ray o Cartier-Bresson, insomma è anche il mito forse un po' incrostato della sua vita. I semiotici parlarebbero forse del testo-Giacometti. Si tratta di un artista a volte preso per la giacchetta, purtroppo. Quante cose pseudoesistenzialiste abbiamo letto sul senso nascosto di quella statua, Homme qui marche, che rappresenta la sua quotazione più alta e, forse, l'icona della sua arte? Giacometti rimane un grande artista, sciolto, assoluto, e il libretto di Belpoliti mi pare sia un buon passo per iniziare (o consolidare) una nuova stagione critica che lo riguardi e lo rilegga (e lo rilegga pure nel senso letterale, in quegli scritti e conversazioni che ci ha consegnato e che non andrebbero dimenticati). Un Giacometti insomma più sulla scia di un suo illustre e precoce scopritore, quel Michel Leiris che oggi ridiventa fulcro importante delle nuove leve della critica, da dove indebolire o perlomeno relativizzare progressivamente le letture ora troppo esistenzialiste, ora troppo surrealiste, ora troppo primitiviste (qui entra in ballo la grande critica americana Rosalind Krauss, che resta importante su Giacometti come in altre sue avventure critiche) e riconsegnare l'artista svizzero al seme primordiale di qualsiasi arte: lo spazio. Meglio quindi rileggersi anche un saggio fondamentale di Didi-Huberman, Il cubo e il volto. A proposito di una scultura di Alberto Giacometti o alcune cose di Bonnefoy per riguagnare una più giusta percezione della sua opera. Oppure partire proprio da questo libro breve di Belpoliti, che sa dialogare rispettosamente con la complessità della sua arte, mai risolta, proprio perché mai risolto è il problema dello spazio. Assieme a questo, anche il problema della visione e del rapporto figura-spazio è stato da Giacometti approfondito e sofferto. Le sue figure, siano su carta o sculture, appaiono e spariscono in ugual misura, si ingrandiscono e rimpiccioliscono, in una dimensione che pare a stretto contatto con un'imago mortis sempre presente, pressante. Non si tratta soltanto di una "normale" vanitas così connaturata ad ogni natura morta e così originalmente perlustrata nelle nature morte con mela e con mele analizzate e confrontate anche da Belpoliti all'inizio di questo saggio. Credo non si tratti, come già suggerito, di quella lettura esistenzialista, surrealista o primitivista che illumina, di volta in volta, solo parzialmente, alcuni lati dello spazio creato dalla semplice presenza delle sue opere. Lo spazio che unisce e separa si ritrova in tutta la sua arte, come nella similitudine dell'asciugamano posato alla sedia: "Aveva il suo posto, il proprio peso e persino il proprio silenzio". Scrive Belpoliti: "Aver posto significa aver spazio, essere intangibile. La distanza è l'esperienza dell'intangibile, di ciò che resta sospeso, come quell'asciugamano. Senza peso? Nello spazio assoluto è il mondo a non aver peso".  E così, anche nell'icona della sua arte, quell'uomo che cammina del 1960, titolo ossimoro per una scultura, Giacometti irrompe con la sua ossessione spaziale, al di là di tutti i sani ragionamenti che possiamo fare sulla solitudine di quell'uomo, su quelle lunghe gambe affusolate come dita, sul non-finito, sul fallimento. Qualcuno mai ha guardato all'inclinazione del suo busto? Qualcuno mai si è chiesto dove guardino i suoi occhi? Qualcuno ha mai visto le sue dita non affusolate puntare allo spazio che fa apparire e scomparire con il suo passo, con i suoi piedi equamente inculcati tra vita e morte, peso e leggerezza, anima e materia? Tutte questioni di spazio, di tangibilità e intangibilità, di divisibilità, ancora da affrontare.

2 commenti:

  1. Non conoscevo quest'editore e questo libro, mentre seguo con gran interesse i libri di Marco Belpoliti. Pare interessante anche questo lavoro. Buongiorno Valentina

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